IL PERSONAGGIO MEMORIE

Quel parroco coraggioso a lungo dimenticato dalla Chiesa

Giorgio Frasca Polara ricorda Pino Puglisi e ricostruisce il lungo e faticoso percorso della chiesa ufficiale cattolica nel comprendere e ammettere l'esistenza del fenomeno mafioso in Sicilia

Cade in questi giorni il 24mo anniversario dell’assassinio di don Pino Puglisi, un parroco di frontiera che nel povero quartiere palermitano di Brancaccio si dedicava con tenacia e passione al recupero degli adolescenti – già reclutati dalla mafia – per riaffermare e far vivere una cultura della legalità. Credo sia l’occasione per una duplice riflessione: intanto sulla vita di un eroe solitario della ribellione pacifica alla violenza; ma poi anche sulle contraddizioni della chiesa cattolica ufficiale di fronte al “fenomeno” della mafia, le contraddizioni di cui fu vittima don Pino.

Chi era dunque questo prete, figlio di un calzolaio e di una sartina, ammazzato sulla porta della sua parrocchia il 15 settembre 1993, proprio il giorno in cui compiva cinquantasei anni? Era entrato in seminario, nella sua Palermo, ad appena sedici anni. Non per fame (capita anche questo) ma per schietta vocazione. E tutta la sua vita sacerdotale era ruotata sempre e solo nella Palermo “irredimibile” – tragica definizione di Leonardo Sciascia – e nell’entroterra: passerà per esempio qualche anno a Godrano, un paese dissanguato da una feroce lotta tra due clan mafiosi. Sarà lì che don Pino si troverà per la prima volta faccia a faccia con una criminalità particolarmente feroce e oppressiva. Un’esperienza preziosa al ritorno in città, all’insediamento nella parrocchia di un quartiere-chiave dell’insediamento storico della mafia. A Brancaccio comandano infatti i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, boss legati alla “famiglia” di Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina e come questi ora all’ergastolo.

È in questo soffocante crogiuolo che don Pino si rimbocca le maniche e organizza, tra i giovani della parrocchia, la sua missione non solo evangelica ma soprattutto civile, di educazione alla democrazia e alla libertà. È proprio quello che la mafia non può tollerare, e che alla fine diventerà intollerabile. Il 2 giugno 1993 l’avvertimento. Cinque mesi prima don Pino ha inaugurato a Brancaccio il Centro “Padre nostro per la promozione umana”. Ora qualcuno, di notte, mura la porta del Centro con mattoni e calce: i boss fanno capire che è vietato parlare di promozione umana nel loro sino ad allora incontrastato regno. E meno di quattro mesi dopo, a Centro riaperto, un killer affronta la sera del 15 settembre il sacerdote davanti alla parrocchia (qualcuno ricorderà forse una fiction televisiva a lui dedicata) e gli spara un solo colpo di rivoltella, alla nuca. Il clamore è enorme, ma le indagini per superare il muro di omertà saranno lunghe e faticose. Alla fine, nel giugno di quattro anni dopo, è arrestato il latitante Salvatore Grigoli. Più per guadagnarsi uno sconto di pena che per schietto pentimento, costui comincia a collaborare. Ammette ben quarantasei omicidi, tra cui appunto quello di don Pino. Lui stesso racconterà l’ultima reazione e le ultime parole del morente: un sorriso e un «me l’aspettavo». Condannato a sedici anni, Grigoli sarà scarcerato dopo meno di due. Più tardi verranno arrestati anche i mandanti del delitto: ovviamente i fratelli Graviano, condannati all’ergastolo come i quattro guardaspalle che avevano coperto l’autore materiale dell’omicidio.

Proprio questa tragedia consente di ricordare quali e quanti travagli hanno vissuto in Sicilia, sino a ieri, la chiesa cattolica e i cattolici. È una storia istruttiva da ricordare talora a disdoro e talora ad onore di gerarchie e di singoli uomini. E che serve anche a spiegare la solitudine del povero parroco di trincea. Sulla mafia, i vertici cattolici taceranno ostinatamente sino al 1963. Ma quell’anno, esattamente il 30 giugno, una Giulietta-bomba esplode in un aranceto nella borgata palermitana di Ciaculli, altra zona ad altissima intensità mafiosa. Muoiono sette tra carabinieri, soldati e artificieri impegnati nell’opera di sminamento di quell’auto carica di tritolo: un micidiale avvertimento della cosca dei Greco (alleata di Luciano Liggio) alla gang avversaria dei La Barbera, alleata di Totò Riina.

La strage di Ciaculli fa scattare una tale rivolta della coscienza civile del Paese da costringere la Dc e le destre a cessare un quasi ventennale boicottaggio alla costituzione di una commissione parlamentare antimafia. Ma di questa rivolta delle coscienze, i vertici della chiesa cattolica siciliana non sono in alcun modo partecipi. Tutt’altro, purtroppo. Se ne fanno invece interpreti i valdesi attraverso uno sdegnato manifesto di condanna e di mobilitazione firmato dal pastore di Palermo Aldo Valdo Paniscia e affisso su tutti i muri della città. L’iniziativa ha tale eco che dal Vaticano – ove spira l’aria severa di Paolo VI – parte una lettera per l’arcivescovo di Palermo, il cardinale Ernesto Ruffini, uno dei più accaniti reazionari della stagione di Pio XII. La lettera è quasi una intimazione di seguire l’esempio del pastore Paniscia e di svegliarsi, di svegliare la chiesa dell’isola da un troppo lungo e oramai intollerabile torpore, e di scindere la sue responsabilità da quelle di un ambiente politico corrotto e manifestamente colluso con le cosche: c’è bisogno di ricordare – forse sì, ai più giovani tra i lettori – che i capimafia più noti e potenti, da don Calò Vizzini a Peppe Genco Russo, fossero tutti casa, chiesa e sezione dc?

Tanto cerimonioso è, almeno nella forma, l’invito del Vaticano, quanto arrogante sarà la risposta di Ruffini: «Iniziativa molto facile» quella dei valdesi, che però «ha lasciato il tempo di prima». Figurarsi: «Supporre che la mentalità della cosiddetta mafia sia associata a quella religiosa è pura calunnia, messa in giro dai socialcomunisti che accusano la Dc di esser appoggiata dalla mafia».

Questa volta il cardinale si è dimenticato il “cosiddetta”, ma provvede subito a riparare: «Un alto funzionario di polizia, bene addentro nelle segrete cose e abilissimo, mi proponeva il dubbio che cosa si dovesse intendere per mafia, e rispondeva che trattasi di delinquenza comune e non di associazione a largo raggio». Di più e di peggio: «Al presente non si fa che parlare della mafia in Sicilia ma i ripetuti attentati in Alto Adige e le associazioni delittuose in altri paesi (per esempio l’assalto al vagone postale di un treno inglese) non sono meno riprovevoli».

Come dire: perché papa Montini non spende una parola su quelle vicende? Poi persino una feroce battuta sull’appena istituita commissione antimafia: «L’inchiesta riveste un carattere marcatamente politico», «si pensi piuttosto a rafforzare la polizia dandole maggiori poteri» ma, attenzione, poteri mirati: perché oggi «si stanno facendo retate di persone più o meno sospette recando indicibili pene a buone famiglie»!

Questo carteggio salterà fuori solo nel 1989 sulle pagine semiclandestine della rivista “Regno”, ma sarà ripubblicato in un libro (Il Signore sia coi boss) in cui il giornalista Enzo Mignosi aveva documentato il lungo silenzio della chiesa cattolica di fronte agli orrori della mafia e delle sue complicità con la Dc, e ripercorso il drammatico calvario di preti di frontiera come don Puglisi.

Proprio due mesi prima dell’assassinio del parroco di Brancaccio, il 9 maggio di quello stesso 1993, papa Woityla, nel corso di una visita pastorale ad Agrigento, vi aveva pronunciato un discorso contro la mafia che costituì un nobile e vibrante atto riparatore, con l’aperta censura di quanti nella chiesa avevano compiuto “l’errore” di sottovalutare o addirittura di ignorare il pericolo costituito dalla mafia.

Già, c’erano voluti trent’anni – e quali terribili anni, dalla strage di Portella della Ginestra in poi: l’eliminazione di diecine di sindacalisti, dirigenti politici, magistrati, poliziotti, giornalisti – perché un papa non solo pronunciasse con voce rotta da sdegno la parola mafia ma, nel riconoscerne l’esistenza, invitasse i giovani a un «profondo rinnovamento della politica depurandola di quella torbide tendenze clientelari che inquinano profondamente l’esperienza della democrazia», e infine la maledicesse in nome di «una fede che esige, qui, una chiara riprovazione della cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità delle persone e della convivenza civile» rappresentata appunto dalla criminalità organizzata «per la quale verrà un giorno il giudizio di Dio».

Nel 2012 don Pino Puglisi è stato proclamato beato per il martirio “in odium fidei”.