ATTUALITÀ DIALOGARE IN PACE SOLIDARIETÀ VISIONI

Quelle parole per capire perché sei qui

GIUSEPPE CERETTI

Le parole sono il filo invisibile attorno al quale si sviluppano le comunicazioni. Talvolta pesanti come pietre, si ripete per sottolineare la forza d’urto che hanno nelle relazioni umane.

Ma anche tra noi leggere, come ci suggerisce un incantevole libro di Lalla Romano che oltre mezzo secolo fa dipanava da un verso di Montale la matassa di un aggrovigliato rapporto tra una madre colta, intellettualmente libera e aperta, e un figlio introverso che rifiuta non tanto il suo amore, quanto il suo modo d’amare.

Le parole paiono oggi spesso come le bolle che prendono il volo nel soffio di una pellicola di sapone e si gonfiano fino all’inverosimile, per poi scomparire in un istante ed è come se non fossero mai esistite. Nel frattempo si diradano nel lessico quelle pesanti, che si fatica a pronunciare: solidarietà, per esempio.

Talvolta, nel timore di mostrarci esposti al flagello delle nostre inquietudini, le trasformiamo in oggetti contundenti: «Sa cosa le dico? La compatisco» urla qualche dannato idiota da inutili scranni televisivi, facendo carne da macello di un’espressione tanto ricca: compatire, cum-patire, ovvero condividere la passione, la misericordia per l’altro.

Ecco la parola che mancava, l’altro, senza alcuna definizione che non sia quella rappresentata da chi ci vive accanto o che semplicemente incrociamo in ogni istante.

Mi è capitato di incontrare l’altro in una mattina di qualche tempo fa, entrando quale volontario in una casa dell’hinterland milanese.

Alla porta apre Giulia. Il padre Pietro, un anziano agricoltore che reca in volto i segni di un’antica fatica, è sdraiato sul divano, avvolto in un torpore che il malanno accentua.

«Warum bist du hier?», Perché sei qui?

Si muovono a fatica le labbra in quel viso scavato dalle rughe e che reca le tracce di lunghe fatiche al sole. Escono gli scampoli d’una lingua imparata negli anni Cinquanta del secolo scorso. Poche frasi, giusto per faticare e sopravvivere in terra straniera.

Il gran vecchio che mi sta di fronte mi spiazza con quella domanda e non solo per l’uso del tedesco che io, privilegiato, ho male imparato sui banchi di scuola. Perché sono qui? Il medico, l’igienista, la badante, la figlia, tutto chiaro. Ma io chi sono per lui? Taccio, mi chino e dispenso un sorriso.

Pietro, 88 anni, lo chiameremo con un nome patriarcale come si addice, ha un tumore al rene con metastasi. Una lunga vita trascorsa “senza un dolore”, anche se tra mille fatiche. A novembre la scoperta del male che l’ha costretto nel principio d’anno a lasciare gli amati campi della Basilicata per raggiungere la figlia che abita in questo comune dell’hinterland milanese.

L’intruso quale sono (warum bist du hier?) accompagna la dottoressa che da sedici anni lavora nell’equipe domiciliare, per capire come funziona una “normale” giornata di assistenza.

Pietro ci guarda con occhi di straordinaria espressività e con un accenno di sorriso ironico. Ha appena ricevuto nel bagno le cure necessarie dallo scrupoloso operatore d’igiene che ci ha preceduto e che ha il compito non secondario di garantire dignità all’aspetto fisico d’una persona.

E la dignità che svela Pietro si specchia nell’appartamento della figlia, luminoso e rallegrato dai vivaci colori di pitture astratte in sala o dai mille oggetti che popolano le mensole. Giulia ci accoglie con un «grazie» appena sussurrato, ma che esprime profonda sincerità.

In quell’ora, tra cucina e sala, come due fondali di scena di una stessa rappresentazione, si snodano così i racconti di una famiglia, si entra nei meandri di storie che sino a quell’istante erano custodite in quelle mura, in quella famiglia, originaria di un centro della Basilicata tanto caro a Carlo Levi. La fatica di papà Pietro nei campi, l’emigrazione in Germania, il lavoro, il ritorno, la morte a soli 53 anni di mamma, i due figli, oggi poco più che quarantenni, che decidono giovanissimi di lasciare la loro terra per cercare lavoro e un’altra vita, altre opportunità. Un intreccio di modernità e tradizioni dure a morire che ha caratterizzato milioni di storie del nostro Paese.

La miseria è un ricordo. Pietro ha garantito pane e sicurezza ai suoi figli che ora altrettanto fanno, ma la via è stata lunga e non senza contrasti, con momenti di grande affetto e altri in cui il padre padrone che ha albergato in Pietro ha scatenato naturali ribellioni: «Non mi cercate, sono partita», «Papà, questa è la nostra vita».

Così, dalla sponda paterna, le abiure: «Vi dovete sposare», “Non vi voglio più vedere».

Ritorniamo da Pietro che ci guarda, attento e scrutatore.

«Warum bist du hier?». Già. Tutto gli è chiaro, meno che ci faccio io.

Ma, forse perché scorge un volto comunque sorridente e meno lontano dai suoi anni, mi chiede di avvicinarmi e sussurra: «Sono contento di stare qua, mi hanno portato a fare le visite mediche. Siete bravi».

Tra un paio di giorni, è la decisione presa la sera prima, Pietro tornerà nella sua casa natale, nella sua terra. Eppure nemmeno in un paio di mesi s’è bene adattato alla nuova realtà. Ha fatto amicizia con i vicini. Con i figli il rapporto ora è ottimo, così come con il genero. Ma è tempo di tornare: «Sento che devo andare», ha sussurrato la sera prima alla figlia.

Cura, rispetto, attenzione. Il signor Pietro è l’altro che ho imparato a conoscere. Ora ho capito «warum ich bin hier».

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