LA PAROLA

Rave

Rave è un termine che suona come baldoria e si declina come delirio. Detto questo, bisogna fare un salto all’indietro di oltre trent’anni, un giro di giostra vorticoso che ci catapulta in una dimensione fatta di musiche più o meno martellanti, con immancabile contorno di droghe sintetiche. Siamo nella vecchia Inghilterra, madre prolifica di tutte le mode e le musiche che hanno fatto impazzire buona parte del pianeta, e dove già dalla metà degli anni Ottanta, i rave party erano l’ultima frontiera del divertimento. Si requisivano capannoni e fabbriche abbandonate nelle periferie urbane, il più possibile lontano dall’abitato, e il “free party” (altra definizione di rave) esplodeva nel gioco dei laser e dei decibel, per tutta la notte e anche per più giorni.

A questo punto, è d’obbligo parlare della sua colonna sonora. In origine fu la house music, la cui paternità non è inglese ma viene rivendicata dai dj della Warehouse di Chicago, Frankie Knucles in testa. Già da tempo l’uso delle nuove tecnologie aveva dato a tutti la possibilità di creare il proprio unico sound. Era iniziata una nuova era, quella della techno e dei suoi derivati, trance, underground, acid techno e techno house. E con i nuovi ritmi, le nuove droghe, fresche di laboratorio, fanno il loro debutto sulla scena.

All’epoca era l’Mdma, meglio conosciuta come ecstacy a far parte del leone. Più “pulita” rispetto alla classica coca, più facile da reperire, divenne ben presto un cult.

Il primo rave party a salire agli onori delle cronache in Gran Bretagna, fu il Castlemorton Common Festival, una kermesse di 6 giorni, ingresso libero, musica dance e elettronica, droga a volontà a cui parteciparono ventimila persone e che si concluse con l’arresto degli organizzatori. Il fatto scatenò un’inevitabile reazione a catena in tutta Europa. Amplificato dal tam tam delle radio, dal passaparola dei nuovi adepti, il fenomeno rave sbarca anche in Italia, ottenendo immediatamente un furibondo successo.

The Rose Rave, primo free party di casa nostra, organizzato dalla discoteca Doing nel giugno del 1990, si concluse con l’irruzione della polizia e con la chiusura immediata del locale. A settembre dello stesso anno, in Mugello, al World Beat Dance Festival a cui parteciparono oltre 4.000 ravers da tutta Italia, un ragazzo di 19 anni perse la vita a causa di una coltellata durante una rissa.

Ormai nell’occhio del ciclone, i ravers sono costretti al salto definitivo nell’illegalità. L’ecstasy ha lasciato il posto a nuove sostanze come la Keta (ketamina, da tempo usata come anestetico in veterinaria), dal potere altamente allucinogeno che viene spacciata con denominazioni alquanto fantasiose, Vitamina K, Kitekat, Purple e ovviamente tagliata con sostanze sempre più pericolose.

Stretta tra morti per droga e braccata dalla legge, la cultura rave riesce a sopravvivere anche nel nuovo millennio. Col passare degli anni ha perso mordente, e soprattutto ha perso quell’alone di illegalità che l’aveva resa così appetibile ai palati di giovani e giovanissimi. E oggi, grazie anche all’indispensabile aiuto dei social media, se pure in versione addomesticata, il vecchio free party non è ancora finito in soffitta.

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