Sostantivo maschile, compost o da reggere e seno, indica l’indumento intimo femminile usato per sostenere, modellare, mettere in evidenza il seno. Chiamato fino a qualche tempo fa anche reggipetto, il sostantivo è spesso associato a un aggettivo o a termini che servono a qualificarlo: reggiseno push up, a fascia, da allattamento.
Non è tanto l’etimologia quello che incuriosisce di questa parola, quanto la storia dell’indumento, che è indissolubilmente legata a quella dell’emancipazione della donna. Il reggiseno, infatti, si diffonde nei primi del Novecento in sostituzione dei corsetti, busti di stoffa sagomati con stecche di balena, che comprimevano la vita delle donne che li indossavano, contribuendo a definire – sia fisicamente che nel linguaggio comune – i “vitini di vespa”, e che spingevano, strizzavano, mettevano in mostra o celavano il décolleté.
La creazione di questo capo d’abbigliamento è attribuita a Mery Phelps Jacob, scrittrice e attivista americana che, nel 1912, pare che abbia unito due pezzi di stoffa con del nastro, creando quello che lei chiamò il backless brassiere, la lingerie per far stare a proprio agio le donne. L’indumento, subito richiestissimo dalle amiche della Phepls, fu brevettato nel 1914. E se la data di registrazione del prodotto nell’elenco delle invenzione è certa, esiste però un’altra versione della storia che colloca l’invenzione del reggiseno in Francia una ventina di anni prima, quando Madame Herminie Cadolle presentò all’esposizione universale di Parigi del 1889 un corsetto tagliato a metà che battezzò soutien-gorge . C’è da dire che la parola reggiseno era già apparsa in precedenza e la rivista “Vogue” fu la prima nel 1907 ad utilizzarla.
Quale che sia la paternità dell’invenzione e dove vada ricercato l’uso della parola importa poco, se si pensa a quanto il reggiseno abbia influenzato la vita e il costume, abbia liberato fisicamente le donne da costrizioni e limiti, sia diventato simbolo di emancipazione e battaglie, di uno stile di vita più libero e meno conservatore, come dimostrano le molte immagini di reggiseni lanciati durante le manifestazioni – dalle sfilate di protesta ai concerti – tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. E, pur essendo uno dei capi più immaginati, sfruttati, prodotti con l’idea di sedurre, affascinare, mettere il risalto e valorizzare, sembra che il collegamento tra l’indumento e l’affermazione dei diritti non sia da considerarsi del tutto demodé.
Lo conferma il dibattito a cui nei giorni scorsi si è assistito sui media – dalle grandi testate giornalistiche ai social – sulla questione della presenza o meno del reggiseno sotto la maglietta nera di Carola Rackete, la capitana della Sea Watch: uscita dalla Procura di Agrigento si è mostrata ai media di tutto il mondo con il petto apparentemente non costretto e “aggarbato” dal reggiseno, scatenando la discussione , francamente poco interessante, ma sopratutto la gogna social.
E proprio per ribadire la libertà di ogni donna di indossare o meno il reggiseno, di vestirsi, apparire e mostrare al mondo l’immagine di sé che preferisce, che due ragazze torinesi, Nicoletta Nobile e Giulia Trivero, hanno lanciato per oggi, sabato 27 luglio, il #freenipplesday, una giornata in cui invitano tutte le donne a non indossare il bra.
Le due promotrici, della scuola di teatro Ert – laboratorio permanente dell’attore, vogliono ironizzare e provocare per sottolineare come il corpo femminile sia usato spesso per distogliere l’attenzione del dibattito politico e come le scelte delle donne siano ancora, troppe volte, prese a pretesto per giudicare, umiliare, demonizzare persone che dovrebbero essere considerate per altro, non certo per l’uso o meno di un indumento. Eppure, come spesso succede quando si chiede di aderire a un’iniziativa che comporta una scelta personalissima della donna – quella di rinunciare a un indumento intimo che determina spesso il comfort e la serenità di chi lo indossa – si rischia il risultato contrario: di puntare di nuovo troppo i riflettori e far sì che, ancora nel 2019, le donne vengano giudicate non per quello che fanno, dicono, pensano, ma per quello che indossano sopra il loro petto.
Forse, quindi, per ribadire la libertà di Carola Rackete e di tutte le donne in generale più che un “Giorno del capezzolo libero” si dovrebbe dare vita alla giornata dell’ “indossa quel che diavolo vuoi”. Espressione che funzionerebbe, con un’accezione leggermente più volgare, anche in inglese: #wearwhatthefuckyoulike. Come dimostra la presenza di questa stringa di parole già sui social media di tutto il mondo