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Roccatederighi, il campo della vergogna

Una bella, enorme villa, un parco vastissimo. Tutto intorno la natura selvaggia della Maremma: i campi, i boschi, i casolari isolati, il silenzio di un mondo lontano. Quel grande edificio a Roccatederighi nel Comune di Roccastrada era nato come residenza padronale e, passato nei patrimoni della curia di Grosseto, era poi diventato seminario e residenza durante l’estatatura, per vescovi, preti e seminaristi. Neanche l’anopheles osava, infatti, avventurarsi in quel luogo sperduto che, con i suoi 500 metri di altitudine, rendeva difficile anche lo sviluppo delle larve di zanzara. Le conquiste dei nobel Laveran e Golgi, gli anni del chinino, la sconfitta della malaria e la conseguente fine del faticoso trasloco estivo ridussero nel tempo le presenze a Roccatederighi e per anni le grandi stanze non raccolsero ospiti. Era nei destini però che anche quell’oasi di pace venisse sconvolta dalla tragedia della guerra e dalla barbarie che ne conseguì. Accadde tutto in modo veloce, senza una logica e senza alcuna opposizione. Il 30 novembre 1943 il ministro dell’Interno della Repubblica sociale, l’avvocato pisano Guido Buffarini Guidi, si piegò alle imposizioni naziste e diramò una circolare che ordinava l’internamento di tutti gli ebrei in campi di concentramento provinciali.

Non aspettava altro Alceo Ercolani, il fascista viterbese fanatico e ottuso che, in quei mesi, era a capo della provincia di Grosseto. Da tempo infatti aveva messo gli occhi sul vecchio seminario estivo e, addirittura prima della circolare di Buffarini, aveva iniziato la costruzione di un campo nella zona di Roccatederighi. Ercolani il 27 novembre arrestò e radunò i primi ebrei e il 28 li internò nella nuova area che era stata recintata a tempo di record sotto la direzione di Gaetano Rizziello. In un’impresa così assurda non fu di ostacolo la Curia di Grosseto con la quale Rizziello sottoscrisse un contratto di affitto per un’ala dell’edificio destinata a ospitare almeno ottanta reclusi. Anzi il vescovo Paolo Galeazzi, oltre al canone di cinquemila lire mensili, riuscì ad ottenere l’impiego di cinque suore che, per trecento lire di stipendio, si sarebbero dovute occupare della cura delle camerate. Il campo di Roccatederighi restò attivo dal 28 novembre 1943 al 9 giugno 1944. Poco meno di sette mesi durante i quali mai venne pagato il canone, mai le suore riscossero per il loro lavoro e addirittura senza risposta rimase un sollecito del vescovo.

Nel periodo di attività i fascisti rastrellarono e internarono gran parte dei non molti ebrei presenti nella provincia di Grosseto. Nel censimento del 1938 se ne erano contati appena 149, la maggior parte dei quali (68) residenti a Pitigliano. Documenti attestano che la popolazione del campo non superò mai le ottanta unità compresi ebrei stranieri e italiani in transito da diverse altre regioni del paese. Furono proprio loro quelli che ebbero la sorte peggiore: 38 infatti furono avviati a Fossoli e di essi 33 finirono poi a Auschwitz da dove solo quattro tornarono vivi.

Durante tutti i sette mesi, il vescovo Galeazzi, insieme alla sorella, vissero in un’ala dell’ex seminario accanto a quella dei reclusi. La figura e l’attività del presule grossetano sono rimaste, negli anni, al centro di accese dispute tra gli storici. Senza risposta è rimasto l’interrogativo sul contratto firmato insieme a Rizziello. Galeazzi scelse liberamente o si piegò ad una costrizione convinto che l’alternativa comunque sarebbe stata un esproprio dell’edificio? E fu costretto a sottoscrivere anche una frase con la quale i repubblichini riconoscevano alla Curia «una prova di speciale omaggio verso il nuovo governo»? Addirittura un atteggiamento che superò la politica estera del Vaticano che non ha mai riconosciuto la repubblica di Salò. Interrogativi inquietanti rimasti senza una risposta.

Su un diverso piatto della bilancia stanno invece le testimonianze dei reclusi che indicarono come Galeazzi e la sorella si fossero prodigati per migliorare le condizioni di tutti i presenti nel campo. Addirittura il vescovo, secondo alcuni internati, avrebbe salvato molti ebrei maremmani evitando che i loro nomi finissero nelle liste dei trasferimenti verso Fossoli. Vero è che nessun ebreo grossetano lasciò Roccatederighi per i viaggi della morte. Esistono casi di internati rilasciati per motivi di salute mentre la fuga di altri venne favorita quando, con l’avvicinarsi degli alleati, la vigilanza divenne assai blanda. Rimasto per anni sepolto nella microstoria delle tragedie della guerra, la vicenda del campo di Roccatederighi è tornata alla luce grazie al certosino lavoro dell’Istituto storico della Resistenza di Grosseto. Recentemente, durante una cerimonia, presenti esponenti delle comunità ebraica romana, una lapide è stata sistemata nel parco dell’ex Seminario a ricordo delle sofferenze che in quel luogo comunque patirono uomini, donne e bambini innocenti.