ATTUALITÀ THE DARK SIDE OF THE NEWS

Scappare dalla Sardegna, scappare da Londra

Rita Martinelli, una delle principali collaboratrici di TESSERE ha un figlio che lavora proprio in uno dei locali dove si è consumato l'attentato terroristico di Londra. Qui racconta cosa si prova ad avere prima il terrore per non trovare lavoro e doverlo andare a trovare altrove e poi quello di avere un proprio caro laddove il terrore cercano di fartelo mangiare come se fosse un tacos.

Rita Martinelli, una delle principali collaboratrici di TESSERE ha un figlio che lavora proprio in uno dei locali dove si è consumato l’attentato terroristico di Londra. Qui racconta cosa si prova ad avere prima il terrore per non trovare lavoro e doverlo andare a trovare altrove e poi quello di avere un proprio caro laddove il terrore cercano di fartelo mangiare come se fosse un tacos.

Il pensiero va lì. Dove hai saputo che è successo. “Quel” pensiero, improvvisamente, zittisce tutti gli altri. Qualsiasi pensiero tu abbia nel momento esatto che ti arriva la notizia, sparisce. Non esiste altro che il bisogno di sapere.

Pochi secondi e un messaggio di risposta ti dice: «Tranquilla mà, tutto a posto». Poi, però, così tutto a posto non è. E non solo perché il caso ha voluto che tuo figlio chiedesse due settimane prima il pomeriggio libero per andare a casa a vedersi una partita di calcio, consentendogli così, di non essere presente proprio “lì”.

Lì, in quel momento. Lì, in uno dei due locali (oltre al ponte) dove sono successi “quei” fatti. C’era sino alle 17, ma se la Juventus non avesse giocato una partita a Cardiff, lui sarebbe stato lì, sul posto di lavoro. Sarebbe stato lì, magari steso a terra accoltellato come la ragazzina di diciassette anni sulla soglia del locale dove lui lavora, intenta a mangiarsi un tacos appena ordinato e soccorsa dai suoi colleghi, trascinata dietro il bancone del locale in una pozza di sangue, cercando in qualche modo di tamponare la ferita, ma invano.

Sarebbe stato lì a barricarsi dentro il locale con colleghi e clienti presenti in quel momento, a cercare di mettere in fuga un bastardo che pare urlasse contro il mondo intero, senza nemmeno sapere quel che dice, «per Allah, vi ammazzo tutti». A lanciargli dietro, così come ha fatto il suo manager, bottiglie e sedie e tutto quello che capitava sotto mano per farlo desistere dall’entrare oltre la soglia e chiudere, finalmente, la porta d’ingresso. Stendersi sotto i tavoli; tra le urla, l’ansia, la confusione, il sangue, farsi coraggio e darsi soccorso l’uno l’altro.

Sarebbe stato lì a sentire gli spari della polizia accorsa sul posto solo 7 minuti dopo quello che è accaduto sul Ponte. Avrebbe vissuto la sparatoria lì. Ne avrebbe avuto paura. Avrebbe vissuto quell’ansia che si è vista nei video e sentita dentro è un’altra cosa: nei volti delle persone. Quell’orrore, quella assurdità.

«Pensa mamma – ironizza lui milanista – devo dire grazie alla Juventus, se mi sono salvato al vita».

Già, se nella fattispecie non avesse tifato per una squadra di calcio italiana che ti riporta, almeno per 90 minuti di gioco, a “casa”, sarebbe stato sul posto di lavoro. Ecco, sì il “posto di lavoro”. Un lavoro che qui – nel paese dov’è nato, Carbonia, cuore del Sulcis, orfano di miniere e distrazioni, angolo di luccicante Sardegna – non c’è.

Che “qui” non può sperare di avere: né lui, né sua sorella, anche lei a Londra con marito e due figli, “immigrati”, come quelli che “qui” sono disprezzati, per camparsi e dare un futuro ai loro piccoli.

Quel lavoro che consente di vivere dignitosamente e onestamente; quel lavoro che, per l’incapacità di chi governa, questo paese non è in grado di produrre, anche se si ha voglia di lavorare; di crearsi, com’è giusto che sia, un’indipendenza economica dalla famiglia; di farti pensare ad averne una tua; di sognare progetti di vita.

Una vita dignitosa, mica la luna o chissà quali ricchezze: una casa, mica comprarla, ma almeno pagarsi l’affitto; una famiglia, dei figli, un’ auto. Una vita normale. Una vita come tanti. Una vita che solo un lavoro retribuito può dare. Quello che dovrebbe essere un diritto avere e che sta scritto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

E invece devi scappare, fuggire, emigrare. Andartelo a cercare fuori. Esporti a questo rischio e lì esporti all’altro di saltare in aria o essere infilato.

Due volte un’umiliazione, uno schiaffo. In entrambe non scelta, o scelta perché obbligati. Si, obbligati. Nessuno andrebbe via dal suo paese per lavorare. Andrebbe via per fare altre esperienze, com’è giusto e lecito che sia.

Vorresti avere il diritto di avere quel lavoro che ti permette di scegliere per la tua vita, e vorresti averlo lì, dove hai messo al mondo figli e intorno ad essi creato una rete di legami familiari e relazionali, nella comunità dove hai infisso i tuoi pilastri affettivi, personali, la tua identità.

Si campasse d’aria e di notti stellate, il problema non si porrebbe. L’aria qui è buona e cieli notturni sono zeppi di stelle. Ma la vita non è solo un fatto esistenziale, è anche un fatto economico, dipende molto dall’aspetto lavorativo. È basilare se vuoi portare al parco i bambini, a scuola, a prendere un mezzo, a fare la spesa o solo fermarti a bere una bibita al bar. Tempo di vita normale quasi banale, corroso invece da quell’ansia.

E invece, dice mia figlia, guardarsi intorno con sospetto; chiedermi con voce carica di apprensione, come ha fatto viaggiando insieme a me sulla metro londinese, «Perché viaggia così veloce? Non è normale. L’hanno sabotata di sicuro. Vedrai che in stazione tira dritto. Adesso si schianta. Andava troppo veloce».

Anch’io sono andata in ansia. Ed ogni volta che vado là è così. Anche qui, adesso è così, senza nemmeno prendere la metropolitana, e chi ce la da a noi la metro?!

Mi viene il panico quando mio figlio o mia figlia prendono la metro, laggiù a Londra, dove hanno trovato lavoro. Perché sai che non vanno a colpire i potenti, colpiscono in ogni angolo, dove c’è gente. Vanno e ammazzano per instillare terrore. Questo è lo scopo.

Quei fatti sono accaduti molto lontani da questa cittadina del Sulcis Iglesiente, ormai morta di inedia, di fame, di povertà, senza progetti, senza iniziative vitali. Eppure è come se fossero avvenuti qui. Il terrore è arrivato sin qui. Ed è qui accompagnato dal senso di frustrazione.

Scappare dalla propria terra per andare dove si scappa dal terrore.

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