LA PAROLA

Selfie

In tempi abbastanza vicini, ma che sembrano lontani anni luce, si chiamava autoscatto. Per farne uno buono, ci volevano almeno tre cose: una macchina fotografica dotata di questa opzione (fondamentale), un cavalletto (in alternativa, un piano di appoggio), tempo (tanto tempo).

Dopodiché, una volta finito il rullino che poteva essere da 12, 24 o 36 pose, c’era da aspettare almeno una settimana per vedere il risultato di tanto impegno stampato su carta lucida o satinata, formato 10×15. Se la foto (o le foto) era venuta male, c’era da ripetere la procedura con il rullino successivo. Insomma, roba che avrebbe scoraggiato – e di fatto lo faceva – anche il più paziente dei meno tecnologici votati alla causa del self-portrait, da cui appunto deriva la moderna parola di oggi: selfie.

Che poi self-portrait, alla lettera significa autoritratto, ma non scomodiamo nessuno dei grandi nomi che ci sono venuti alla mente in automatico.

Oggi, con l’evoluzione tecnologica delle macchine fotografiche digitali prima, di iPhone e smartphone dopo, autentici gioielli multitasking con cui si può fare tutto tranne che telefonare, farsi un autoscatto, chiedo scusa, un selfie, è diventato talmente semplice e immediato che non farsene è da sfigati.

I social hanno fatto il resto e la faccina imbronciata, con la bocca a «culo di gaddrina» (cit. Andrea Camilleri) per lei, l’occhiale trendy e il pettorale in mostra per lui, sono diventati l’essenza stessa dell’io. “Selfo ergo sum”.

Così intere legioni di forzati del selfie, da alcuni anni dotati anche di bastone estraibile e di fotocamere subacquee che permettono lo scatto tra la schiuma delle onde, si aggirano con il braccino proteso in avanti e verso l’alto a farsi foto in ogni situazione, da condividere su facebook, su instagram, su snapchat, su ogni dove sia visibile a tutti gli “amici”.

Ma ammettiamolo: chi di noi non ha mai ceduto alla tentazione di scattarsi una raffica di pose per scegliere la migliore da mandare in rete? Chi non si è photoshoppato prima di pubblicare il sé stesso da social? Chi non si è tolto la soddisfazione di farsi un lifting virtuale levigando rughe, schiarendo la pelle, ingrandendo gli occhi, rimpicciolendo il naso?

Nessuno sembra essere immune da questo fenomeno sociale, di portata planetaria. Politici, gente di spettacolo, personaggi pubblici, giovani e meno giovani. Celebre (e molto discussa) l’immagine che ritraeva Obama, la premier danese Helle Thorning-Schmidt e David Cameron intenti a scattarsi un selfie ai funerali di Mandela nel 2013, tre anni dopo che la Apple aveva prodotto il primo Iphone con fotocamera frontale fondamentale per la diffusione della moda del selfie.

Non è un atteggiamento da millenials che per primi lo hanno sdoganato, è qualcosa che va oltre il costume. Per gli studiosi della mente umana, scattarsi selfie a raffica è un comportamento narcisistico, correlato alla bassa autostima e al desiderio di autoaffermazione.

Sia come sia, nel 2013 il Museum of Modern Art di New York ha patrocinato la mostra “Art in Translation: Selfie, The 20/20 Experience” tutta dedicata a questo fenomeno. Non è una cosa da poco.

La parola è talmente di uso comune, che nessuno ormai si interroga più sulla sua origine, che sembra da ricondurre al 2002, quando venne utilizzata per la prima volta in un blog australiano, nella sua forma originale selfy, che poi sarebbe la giusta versione linguistica.

Il suffisso diminutivo-vezzeggiativo -ie, con il quale la parola si è diffusa ed è entrata di diritto un po’ in tutte le lingue, è stato aggiunto dopo. In forma affettuosa, come per il cucciolo di casa, del quale non si può più fare a meno.

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