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Come sottrarsi al linguaggio dei tanti Trump

Il trucco è ripetere gli stessi concetti e le stesse parole fino allo sfinimento. Lo sa bene Donald Trump, o meglio i suoi ghost writers e i suoi stretti collaboratori. I discorsi di The Donald, così come i suoi tweet, sono infarciti di great, people, country, news, fake, american, job, security, thank, ecc, non più di una cinquantina di parole, alcune delle quali ricorrono molto più di altre. Poi, frasi brevi e semplici, argomenti rivisti e ricontestualizzati secondo il suo modo di vedere le cose, nonché rapide e improvvise sparate per spostare l’attenzione quando è in difficoltà, in modo da non risultare mai responsabile di qualcosa.

Una strategia vincente, che secondo il linguista e cognitivista americano George Lakoff, in una intervista a Michael Knigge del quotidiano tedesco “Deutsche Welle”, sta modificando il DNA del meccanismo linguistico tra i suoi concittadini, sovraesposti alla comunicazione logorroica di Trump, fatta di incontrollabili ripetizioni, e che finiranno per ragionare, pensare e parlare come dice lui.

Un incubo, a pensarci bene. L’allarme è serio come spiega Lakoff, specificando che anche George Bush aveva già sperimentato con successo questo sistema, utilizzato con disinvoltura nella propaganda dello “Stato islamico” e in altri regimi che fanno del linguaggio uno strumento di controllo dell’opinione pubblica. A questo proposito è interessante leggere un saggio della semiologa Gabriella Klein, La politica linguistica del fascismo, edizioni Il Mulino, 1986, oggi pressoché introvabile.

In realtà, magari fossero solo i regimi dittatoriali a pianificare scientificamente il controllo del linguaggio. La linguistica e la psicologia cognitiva sono discipline basate sullo studio dei processi del linguaggio, la cui conoscenza permette di elaborare schemi comunicativi in grado di modificare l’apprendimento e la metabolizzazione da parte del destinatario della comunicazione stessa. E da sempre se ne fa grande uso.

«Il linguaggio – spiega Lakoff – attiva un’area e un circuito nel cervello. Ogni volta che questo circuito viene attivato, una sinapsi si rafforza. Quindi – semplifica – più una cosa viene ripetuta, più il circuito diventa forte e resistente. Essere esposti a questo tipo di linguaggio è pericoloso. Prima o poi, se non si reagisce sviluppando e insistendo su sistemi di espressione diversi, lo si asseconderà, lo si ripeterà, lo si rafforzerà».

Il titolo dell’intervista è quantomai emblematico: Non ritwittate Donald Trump e non usate la sua lingua. Un monito che Lakoff lancia anche ai giornalisti, che, ignorando completamente (a suo avviso) le ultime scoperte nel campo delle scienze cognitive, assecondano il “gioco” di Trump, riproponendo le sue dichiarazioni e i suoi tweet nella loro forma originale, pur con l’intento di confutarli.

Nel suo libro Non pensare a un elefante, Lakoff – che è professore di Scienze cognitive e Linguistica all’Università della California, a Berkeley – spiega i meccanismi del cervello, che rafforzano un concetto anziché negarlo, se quello stesso concetto prima non è stato metabolizzato nel suo pieno significato. Di fatto, spiega «ogni volta che si nega qualcosa usando apertamente il linguaggio della persona che si vuole contraddire, in realtà si sta aiutando quella persona». In estrema sintesi, smentire i messaggi di Trump usando il duo stesso linguaggio, secondo le più recenti teorie del cognitivismo, li rafforza.

Non a caso, sostiene Lakoff, “The Donald” utilizza uno schema in quattro punti che ricorrono regolarmene in ogni messaggio lanciato in pasto all’opinione pubblica, che sia un tweet o un discorso più articolato: individuare un argomento di facile presa sull’opinione pubblica; usarlo come diversivo imputando ad altri eventuali responsabilità; indignarsi e gridare allo scandalo; infine proporre la stessa soluzione, ovvero l’affermazione e la difesa della supremazia americana. Il medium privilegiato da Trump, infatti, è twitter che, per la brevità del messaggio, si presta più di ogni altro alla schematizzazione e alla persistenza inconscia nella testa di chi lo legge.

Allora cosa è necessario fare per scongiurare il rischio che lo “schema Trump” diventi il modello di comunicazione di milioni di americani, sia nella forma che nel contenuto?

Lakoff si rivolge ai giornalisti, ai blogger, agli opinion makers, che a suo parere dovrebbero tornare a concentrarsi maggiormente su quello che TESSERE ha battezzato “the dark side of the news”, cioè sull’aspetto volutamente celato della notizia e sulle ragioni che hanno condotto Trump a concentrarsi proprio su quella.

«Le neuroscienze – spiega Lakoff a “Deutsche Welle” – hanno dimostrato che la maggior parte del pensiero è subconscio perché condotto da circuiti neurali, cui il pensiero consapevole non ha accesso. Immagazzinando informazioni semplici, quindi, il subconscio “impara” e assimila concetti che non sarebbero credibili, consapevolmente. Ed è lì che bisogna agire, cercando di capire, in maniera consapevole appunto, quale verità si vuole tenere nascosta».

«Chi ha il compito di fare informazione – conclude Lakoff – ha anche il dovere di proteggere e diffondere la verità che i cittadini non hanno i mezzi di scoprire, se non apprendendola dai giornali. Se si è indignati per quello che viene detto non lo si deve mai negare: bisogna invece dire l’esatto opposto, chiedersi quale importante verità si vuole nascondere. E a quel punto, dirla questa importante verità, ma nel proprio linguaggio, non in quello di Trump».