CRITICA MOSTRE

Storie di confine al Festival del cinema di Marzamemi

Nell’anno in cui il Festival del Cinema di Frontiera (12-15 settembre 2018) si preparava a vivere la propria “maturità”, molte cose erano destinate a presentarsi diversamente a chi avesse deciso anche per questa edizione di far ritorno a Marzamemi. Tanto per cominciare, in questo 2018 le frontiere lungo le sponde del Mediterraneo non paiono né avanzare né arretrare: si sono semplicemente moltiplicate, e minacciano di inghiottire nel loro cono d’ombra tutto ciò che non venga rischiarato dalla luce dei riflettori di scena. Così al Lido di Venezia, nella tradizionale settimana settembrina riservata al Cinema, è approdata Sconfini, sezione della rassegna dichiaratamente «non competitiva» e «senza vincoli di genere, durata e destinazione». Già un paio di stagioni fa, nel corso di una presenza della sua delegazione artistica in laguna, il piccolo Festival siciliano si era scoperto complementare alla più grande kermesse italiana. E l’apertura ulteriore che fa registrare la settantacinquesima Mostra Internazionale d’arte cinematografica, non può non cogliersi come un segnale a distanza.

Certo, vedute complementari – si diceva – quantunque diversamente orientate. Per Venezia, recuperato lo smalto dei tempi migliori e con esso la capacità attrattiva sulle grandi case di produzione, si tratterà di dare nuovo respiro alla creatività e alla ricerca espressiva, che le logiche della distribuzione del prodotto finiscono spesso per imbrigliare già in partenza.

Per Marzamemi, alle prese nell’anno della “maturità” con il tema La linea d’ombra, conta invece rilanciare la profondità dello sguardo puntando i piedi sul famigerato confine. Ma l’edizione che a Marzamemi si apprestava a prendere avvio, sarebbe stata anche la prima senza Sebastiano Gesù, vicedirettore artistico nonché coscienza critica del Festival, scomparso il 2 luglio scorso. Come gli aveva riconosciuto Aldo Bernardini, della frontiera il Gesù era sempre stato un attento indagatore; “settore di frontiera” lo era il documentario a cortometraggio in Sicilia, quando instancabilmente si prestava a srotolare metri e metri di celluloide celati negli archivi pubblici e privati dell’isola.

Mentre assisto alle proiezione dei lavori ammessi quest’anno in gara al ConCorto, sotto quegli stessi fichi che avevano visto molte volte il Gesù soddisfare pazientemente le curiosità di noi appassionati, mi torna alla mente un documentario presentato fuori concorso in una delle precedenti edizioni. Era questo un documentario a mediometraggio, la cui realizzazione, la direzione artistica aveva affidato ad un istituto scolastico locale; nell’essenzialità del montaggio venivano animate le scene di ciò che resta ai nostri giorni della produzione vinicola del territorio di Pachino, un tempo smistata sulle facoltose imbarcazioni straniere che attraccavano sul piccolo molo di Marzamemi. Pensai, con una certa superficialità, fosse uno strano modo di fare tecnofilm, il «cinema della produttività» come lo ebbe a chiamare Mario Verdone.

Nei fatti, il Gesù attualizzava ciò che andava predicando. Non si trattava più di professionalizzare lo sguardo di addetti al lavoro, quanto di preservare l’ingenuità di chi si pone in osservazione, ripristinando la «primitiva purezza» dell’immagine (La Sicilia della memoria. Cento anni di cinema documentario nell’isola, Giuseppe Maimone Editore 1999). Una realtà socio-produttiva costretta a marginalità riallacciava il dialogo con un territorio ormai votato alla commercializzazione ortofrutticola su scala (inter)nazionale. Le isole tornavano a congiungersi con la terraferma. E a rammentarci come ogni più piccola realtà particolare del nostro Paese si muova all’interno di uno scenario molto più vasto, intessuto di scadenze di bandi e di accesso ai contributi, concorre lo slittamento che questa diciottesima edizione del Festival ha conosciuto dall’ultima settimana di luglio alla metà di settembre.

«Dopo un lustro di nuova organizzazione – ammetteva Rosita Pignanelli, presidente del cinecircolo Cinefrontiera – serve a far rifiatare le casse poiché ci consentirà di ottenere alcuni contributi di vari enti assegnati nel 2016 e nel 2017». Certe premesse parrebbero suggerire il senso di un arretramento, un segnale a muoversi nei limiti del possibile. Invece no. In quest’edizione, più che in passato, ci si muove al limite. In bilico tra i buchi neri della propria coscienza, come imparano a loro spese gli ignari personaggi di Krzysztof Kieślowski.

La sezione Ritratto d’autore che difatti si apre ad una retrospettiva monografica dell’opera del grande regista, si fa carico di riproporre – al riparo dal sole del primo pomeriggio siciliano – alcuni tra i lavori più scottanti e scabrosi che il cineasta polacco abbia mai realizzato: gli ultimi sei episodi di quel Decalogo che, dietro la rassicuranza nominalistica del prontuario, sviscera drammi la cui complessa irrisolutezza ci sfugge ripetutamente da sotto il naso. Attraverso lo sguardo dell’enigmatico “testimone silenzioso” che Kieślowski agita in faccia a uomini e donne dei suoi mediometraggi, ciascuno di noi apprende ad osservare e ad essere ugualmente osservato. I suoi occhi diventano i nostri occhi, permettendoci di passare da un lato all’altro dell’obiettivo.

Questa sincerità mi ha sempre fatto impressione. Cambiano gli scenari, al calare della sera ci si sposta dal cinecircolo alla piazzetta, cambiano i contesti, ma la medesima sincerità riappare nei volti scavati, antichi, degli zolfatari, nelle espressioni penitenti delle devote accorse alle processioni pasquali, nella maestosa natura mai prona, così come li aveva fissati in tanti cortometraggi degli anni Cinquanta Vittorio De Seta. Risplende nei corpi energicamente protesi dei “contadini del mare”, nel luccichio de “lu pisci spata” issato a bordo. Era il segno di una promessa, un impegno cui si voleva prestar fede nella Sicilia del dopoguerra: di descrivere le cose, non più nominandole né raccontandole, ma osservandole.

Sebastiano Gesù

Oggi, semmai, è un altro lo spettacolo che, al riparo delle luci della ribalta, attende chiunque  proietti lo sguardo oltre il perimetro della piazzetta che ci vede protagonisti: reti che giacciono come alghe essiccate al sole, gabbiani che sul molo elemosinano impazientemente il controcanto degli scaricatori, dacché i filetti di alici annegano oramai in barattoli che i turisti possono comodamente acquistare negli ex magazzini attigui. Allora prende la nostalgia a pensare che Mario Verdone oggi non avrebbe più il suo soggetto. Che allo spettatore in futuro sarà precluso di ammirare i “mestieri per le strade” delle borgate marinare, se non nelle sbiadite immagini di repertorio dei maestri del documentario siciliano. In compenso, gli addetti ai lavori aprono le porte delle loro officine, il sapere del pubblico conosce il saper fare dell’operatore: con Daniele Ciprì s’illumina il grande schermo, la perizia di Mohammed Soudani  sgrana la sceneggiatura tra le pieghe del montaggio, la musica nelle mani di Carlo Siliotto guida e si lascia guidare, le sagome prendono corpo nelle movenze di Donatella Finocchiaro e nella naturalezza di Elit Iscan.

I Mestieri del cinema che Sebastiano Gesù aveva portato in primo piano nel corso della sua esperienza accademica prendono vita per le strade, nella piazzetta, tra la gente comune. Forse un primo passo importante è stato compiuto: sembra maturare la convinzione che non si possa più sfuggire alla bidimensionalità del mezzo, alla necessità di porsi al di qua e al di là della camera. Per superare l’ultimo tabù, percorrere l’ultima frontiera ancora ignota al cinema e a gran parte dei suoi attuali interpreti.