LA PAROLA

Tandàn

Ghetto veneziano

Dei quattro figli, a cui Dio si rivolge nell’Haggadah di Pesach – gli altri sono il savio, il perverso, quello che non sa interrogare – lui è il semplice, il tam. Il semplice, lo stupidotto, colui che, di fronte alla narrazione dell’uscita degli ebrei dall’Egitto (Haggadah, in ebraico, significa “racconto”) chiede solo, di continuo: «Perché è così?». Che poi, a pensarci bene, è una domanda fondamentale, ineludibile, ma il tam, poi raddoppiato nella parlata in tandan, è rimasto – originariamente in giudeo-veneziano – sinonimo di “stupido”, “sempliciotto”, “ingenuo”. Ciò che appare incredibile è che tandan sia una delle pochissime parole passate dalla parlata giudeo-veneziana al dialetto comune, dai tempi della Serenissima fino ad oggi: così si dice Omo a la tandàna, per definire qualcuno che vive senza progetti, alla giornata. Oppure, Tandan da le roste sta per “disperatamente stupido”, persona che non può che scottarsi col suo stesso fuoco. Ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso, le comari – magari parlando di una conoscente che non aveva fatto un buon matrimonio – commentavano: «Poaréta, che tandan de omo che la gà maridà!» (ossia «poveretta, che imbecille si è andata a sposare!»).

Il povero Rafi se lo ricordano in pochi: un qualsiasi tandan del Ghetto di Venezia, personaggio semplice, basso e magro. Faceva trasporti a domicilio, chiedeva sempre il perché di tutte le cose. Talvolta, si fermava a guardare le nuvole scorrere tra gli alti edifici e la gente lo prendeva in giro: «Rafi, hamor (“asino”)! Che cerchi col naso per aria?». Lui, il tandan, aveva fiutato l’aria in quel dicembre in cui li deportarono (solo che non gli dettero retta, al contrario del sogno di Shlomo, il matto di Train de vie). Perché il tandan fa le domande, e questo alla fine conta. Così, in veneziano, passa ancor oggi un’altra versione del termine: tandan, ossia “il veggente”.

Dato che le domande non le fa più nessuno, quella di Rafi (e di tutti i Rafi della Storia) è una specie in via di estinzione. Meglio tandan che mona, si dice (dove “mona”, dall’attributo sessuale femminile è virato, in odor di maschilismi, a definire persona di nessun spessore, che si può imbrogliare con un nonnulla). Anche Meglio tandan che testa da consulti, ovvero “meglio semplice che millantatore”, altro che consulti, magari pagati a peso d’oro.
Se ne ricava che, di quei quattro alla cena di Pasqua ebraica, il tandan risulta decisamente il più affidabile.