LA PAROLA

Telamone

Detto anche Atlante, dal nome dell’omonimo titano della mitologia greca condannato da Zeus a reggere la volta del cielo, il telamone è una figura maschile in pietra con funzione di sostegno, usata in sostituzione di colonne e pilastri. Ambedue i termini vedono la propria etimologia nel verbo greco τλάω (tlào) che significa “sopporto”.

I telamoni sopportano un carico e per questo motivo sono sempre rappresentati con le braccia alzate nell’atto di sorreggere un peso. A differenza delle loro colleghe muliebri, le cariatidi dall’aspetto calmo e imperturbabile, essi sembrano – chi più chi meno – patire la loro funzione portante: l’espressione è dolente, la muscolatura in tensione, le gambe si flettono e, in alcuni casi, l’armonicità della bellezza virile si perde a discapito della fatica fisica supportata.

Le cariatidi al contrario si mostrano impassibili, eleganti e dritte come colonne; portano il peso poggiato sopra la testa e lo sguardo perso nell’orizzonte non pare tradire sforzo alcuno. Pensando ad esse, l’esempio più noto di monumento in cui le vediamo impiegate è senza dubbio l’Eretteo ateniese nel cui portico, al posto di sei colonne vi sono sei fanciulle, dette cariatidi, appunto, da Karya, città del Peloponneso. Vitruvio nel suo trattato di architettura formula la tesi, assai poco sostenibile, che l’immagine femminile con funzione portante tragga ispirazione dalle barbare schiave carie, condannate a sorreggere con fierezza la trabeazione di edifici sacri. In realtà tale ricostruzione risulta priva di fondamento perché abbiamo esempi ben più antichi di strutture antropomorfe portanti.

Nel corso dei secoli tali sculture antropomorfe si sono adattate agli stilemi artistici e al “background” proprio di ciascun periodo storico; se nell’antichità la loro funzione era prevalentemente di tipo decorativo-portante, nel Medioevo i telemoni si fanno portatori di un carico non solo fisico ma anche morale traducendo in immagine gli ammonimenti chiesastici: la loro fisionomia diviene quasi grottesca, li vediamo gravati, quasi schiacciati, da un peso tutto terreno. Non a caso una categoria specifica di penitenti del Purgatorio dantesco è immaginata dal noto poeta come telamoni, costretti a camminare curvi sotto il peso di enormi macigni; si tratta dei superbi che l’Alighieri paragona a sculture delle chiese romaniche, oppressi da un carico maggiore o minore a seconda dell’entità del peccato commesso in vita.

Durante il Rinascimento l’immagine del telamone riacquista la potenza espressiva del corpo virile in tensione per poi mutare nuovamente adattandosi al carattere dinamico e fantasioso della scultura e dell’architettura cinque-seicentesca: a questo punto la staticità e la gravezza lasciano spazio a leggerezza, dinamismo e forme chimeriche estremamente bizzarre.

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