DAILY LA PAROLA

Troiaio

Parola che a pronunciarla coinvolge tutti i muscoli facciali, in Toscana è buona per tutte le stagioni e gli usi più disparati, dalla definizione di un cibo a quella di un luogo, o persino di una persona

Come riempie la bocca questa parola! Provate a dirla! Nel pronunciarla, vi accorgerete che anche i muscoli facciali assumono l’espressione adeguata al significato perché, di sicuro, è una parola che non lascia dubbi d’interpretazione. È contemporaneamente buona e cattiva, ma solo a Firenze è possibile declinarla. «Senti che troiaino bòno che t’ho fatto», dirà lo chef di casa davanti al suo piatto improvvisato; «camera tua l’è un troiaio!», dirà il genitore all’adolescente in turba ormonale; «che troiaio d’òmo», volendosi riferire ad una persona alquanto scombinata.

Un altro esempio lo troviamo anche nella serie tv I delitti del BarLume, tratti dai romanzi di Marco Malvaldi, con la fantastica “tombola dei Troiai”. Pratica in uso anche in diverse regioni italiane oltre la Toscana, dove, Il 26 di dicembre, ognuno incarta il regalo più brutto che ha ricevuto a Natale, lo porta alla tombola e ne pesca un altro. Insomma, il termine offre un’ampia gamma di applicazione.

Ma come viene definito “troiaio” nella lingua italiana? Di base, tutti i dizionari gli attribuiscono una derivazione tardo latina, ovvero troia(m) che indica una scrofa, quindi troiaio è dove alloggiano molte scrofe. Altra definizione del Garzanti, alquanto buffa per un fiorentino macinato grosso, è «luogo dove si trovano molte prostitute o, più genericamente, molte persone disoneste, immorali». In generale, la definizione italiana può essere semplificata in “porcheria”, anche se è una parola molto più limitata nell’utilizzo.

Questo, però, ci offre lo spunto per parlare di un santo: Antonio abate, da non confondere con sant’Antonio da Padova, che proprio di Padova non era, essendo nato in Portogallo… ma questa è un’altra storia.

Se capitate a Milano e avete voglia di visitare il Castello Sforzesco, al suo interno troverete la figura di Sant’Antonio Abate con ai piedi un maialino nero con cinta chiara, opera di Benedetto Bembo (1423 ca.-1489). Il nostro Sant’Antonio è il famoso “lu nemice de lu dimonio”, ma cosa ha a che fare con il maiale? Sul sito del Museo del Prosciutto di Parma troviamo una descrizione ben fatta sulla vita del nostro santo che, in sintesi, si ritirò in meditazione nel deserto dove il demonio si dette non poco da fare per indurlo in tentazione e lo fece apparendogli sotto forma di porco, incarnando così molti degli aspetti più bassi dell’anima umana, come l’ingordigia, la lussuria e la sporcizia.

Ma Sant’Antonio Abate, eremita ne lu diserto, vinse la sua battaglia contro le tentazioni, anche se l’unica tentazione era giust’appunto il porco. Comunque sia, nei secoli, questa immagine si estende sino a far diventare il maiale amico benefico del Santo, tant’è che i monaci della congregazione religiosa degli Antoniani iniziarono a curare i malati del cosiddetto “fuoco di Sant’Antonio” (Herpes Zoster) con unguenti preparati con il grasso dei maiali che allevavano nei loro monasteri. Per concludere, non tutte le porcherie vengono per nuocere, figuriamoci un troiaio!