DAILY LA PAROLA

Trummintìna

Come si estraeva la trementina, anzi la trummintìna, dai pini sulle pendici dell'Etna

La parola siciliana trummintìna (trementina, resina) indica la sostanza naturale oleosa, dal colore ambrato, dall’odore pungente, appiccicosa al tatto, che si produceva nella Pineta Ragabo di Linguaglossa nei secoli passati, ricavandola dal Pino Laricio, un albero millennario che ha trovato habitat favorevole sull’Etna.

I chimici scoprirono che l’essenza di trummintìna, miscelata ad altri composti, creava prodotti alternativi alla pece, usata nell’antichità per la calafatura delle navi. Iniziò così l’estrazione intensiva della pregiata linfa, in alcune specie di conifere nelle foreste italiane, per produrre diluenti, vernici, farmaci, cosmetici etc.

Sull’Etna si insediarono alcune ditte specializzate nel settore, provenienti dalla Liguria. Gli operatori, scelte le piante più longeve, scortecciavano parzialmente il tronco, a 150 centimetri dalla base, e incidevano sulla nudità del tessuto profonde ferite, realizzando caratteristiche canaline simmetriche a rrèsca ‘i pisci (a lisca di pesce), dalle quali, nel periodo della resinatura, stillavano perle di trummintìna che scivolavano nel vasetto di coccio appeso in fondo.

In quegli anni non mancarono le disapprovazioni dei boscaioli, paesani e no, che ogni giorno assistevano al deturpamento dei pini centenari. Quando la sera si incontravano ai quattru canti, l’agorà del paese, discutevano animatamente. Don Sarbatùri (Salvatore), il più reazionario della categoria, riferendosi ai liguri col gesto espressivo della mano, imprecava irruente: «’sti gran curnùti! I beddi zzappìni ‘i stanu facennu svinàri, ma l’àta vistu commu ‘i marturìunu?» (Questi grandi cornuti! I bei pini li stanno facendo svenare, ma l’avete visto come li martirizzano?). Suo fratello Peppe, più sentimentale, ribadiva con malinconia: «Si, veru evi! Di commu lacrimìunu, pari ca ciànciunu e dumànnunu aiutu...» (Si, è vero! Di come lacrimano, sembra che piangano e chiedano aiuto…). «E ‘ccussì ssìccunu, don Peppi! – interferiva Sàru (Rosario) indispettito – Sugnu sicuru ca ssìccunu! Ppi curpa di ddi latri manciatàri ‘nto Guvernu ca ci lu fanu fari!» (E così seccano, don Peppe! Sono sicuro che seccano! Per colpa di quei ladri mangioni del Governo che glielo fanno fare!).

I pini per fortuna non sono seccati, svettano in cielo con le chiome vigorose a saziarsi di luce, sfidano le avversità naturali e degli uomini, ma ancora oggi mostrano le cicatrici sulle cortecce. Non lacrimano più, le ferite inferte sui tronchi fino agli anni Sessanta, quando gli alti costi di produzione e l’arrivo di altre materie prime più convenienti costrinsero le società a cessare l’attività di estrazione, per convertirla nell’abbattimento degli alberi, scrupolosamente selezionati per altri usi dal Corpo Forestale dello Stato, con la tradizionale martiddàta (martellata).

A volte dai nodi sul legname, malgrado la stagionatura, riaffiora la trummintìna, delicato sortilegio a dispetto delle moderne vernici sintetiche che tentano di soffocarla, quasi a voler rifluire nel Parco dell’Etna per mischiarsi alle essenze dei boschi e spandersi sui sentieri della montagna come un tempo.

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