La grandezza di un musicista – così come quella di qualunque altro artista e più in generale, andrebbe detto, di qualsiasi individuo – non è data solo dalla sua capacità di stare sulla scena, ma anche da quella di sottrarsene, di farsi da parte, di uscire dal fascio di luce dei riflettori.
E questo è esattamente quello che ha saputo fare uno dei più straordinari compositori e pianisti viventi, Uri Caine, il jazzista nato a Philadelphia l’8 giugno del 1956. Il 4 maggio scorso, al teatro Manzoni di Bologna, si è esibito, insieme al bassista Mark Helias e al batterista Clarence Penn che compongono il suo stabile Trio, in un concerto capace di andare nel profondo dell’animo e che aveva al suo centro non la formazione jazz americana, ma il coro messo in piedi dal grande Claudio Abbado e da sua figlia Alessandra, presidente dell’Associazione di promozione sociale Mozart14, che ha preso il nome da uno dei più noti personaggi del Flauto magico di Mozart: Papageno.
Il coro Papageno, diretto con generosità da Michele Napolitano, anch’egli capace di sottrarsi alla ribalta al momento opportuno, è composto da una quarantina di detenute e detenuti del carcere della Dozza, la casa circondariale di Bologna, affiancati da volontari che, conoscendo la musica, amandola e sapendola suonare o cantare, l’hanno messa a disposizione di chi, essendo recluso, ha trovato nelle note una forma di riscatto, emancipazione, arricchimento interiore.
Le loro voci, intonando canti per lo più provenienti dalle tradizioni locali – c’erano brani che provenivano dalla Macedonia, dalla Svezia, dalla tradizione arabo-andalusa e da quella afro-brasiliana, dagli spiritual, dal repertorio ebraico, rom, sudafricano e zulu – hanno invaso i tre settori del teatro, gremiti da una Bologna che molto probabilmente non ama solo la musica e vuol ascoltare gli interpreti più noti, ma crede anche in una società più solidale e accogliente di quella che ormai in troppi vorrebbero imporre.
C’era passione e emozione nei gorgheggi delle donne e degli uomini delle età e delle provenienze più svariate, e quella passione e quella emozione si sono impossessate degli ascoltatori, passando dalle loro orecchie e giungendo più in fondo, in un luogo che molti forse chiamano l’anima.
Sì, il pianoforte di Uri Caine – eccezion fatta per il brano in cui proprio ha ceduto la testiera sedendosi in un angolo e ritmando con le mani quanto gli altri suonavano – si sentiva, eccome se si sentiva, così come gli strumenti dei suoi due accompagnatori, e anche i violini, la viola e il violoncello del Quartetto Mirus (Federica Vignoni, Massimiliano Canneto, Luca Bacelli e Elena Favilla), ma al centro c’erano le voci di quella formazione i cui componenti hanno detto: «Cantare mi ha salvato dall’abbrutimento del carcere. Quelle ore di lezione equivalevano per me ad uscire dal carcere. Una ventata di libertà»; «La bellezza dei volti che incontravo ogni volta, mi facevano tornare il sorriso, quando a volte dimenticavo persino di esserne ancora capace»; «Ci viene data la possibilità durante le lezioni e durante i vari concerti di non pensare a dove ci troviamo e le nostre menti sono “libere”. È una scoperta bellissima perché ci permette di scoprire altre lingue, culture e conoscere altri paesi e altre persone»; «Il Maestro Napolitano non sa che forza ha un uomo in mezzo a un gruppo così colorato, i colori sono le nostre etnie, età, personalità, cultura e genere. Ci ha conosciuto, ha creduto in noi, ha fatto in modo che dessimo il meglio di noi per far scendere dal palco, fin dentro la nostra vita, questa splendida lezione: dare il meglio di noi stessi, sempre e a qualsiasi costo».
Gli fa eco la testimonianza di Uri Caine che nel libretto di sala ha scritto: «Quando ero un ragazzo e vivevo a Philadelphia [ora il jazzista, quando raramente non è in tournée, vive a New York], ho iniziato a suonare in un gruppo guidato da un giudice della città che era un batterista. Il suo gruppo suonava nelle carceri cittadine […] C’erano molti musicisti di talento nelle carceri che erano dentro per crimini secondari e possesso di droga. Quelle esperienze mi hanno segnato molto». E riferendosi al Coro Papageno aggiunge: «Mi ha commosso sentire i detenuti cantare un arrangiamento del brano ebraico Shalom Haverim[Ciao amici!], una canzone che cantavo quand’ero molto piccolo. […] Per alcuni questa esperienza ha cambiato loro la vita in carcere. La musica ha portato loro sollievo e ha rotto la noia e il tedio della vita dietro le mura. Preparare i concerti trasferiva loro la sensazione condivisa di avere un obiettivo, ciò che rende il fare musica insieme così divertente».
Impossibile alla fine non chiedere, ricambiati, il bis, gridare «Bravi!» e anche aggiungere: «Grazie».