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Un giorno qualunque di camorra

Vent'anni fa, l'11 giugno 1997, Silvia Ruotolo, 39 anni, viene uccisa dai colpi "impazziti" di un clan della camorra in un regolamento di conti al Vomero, a Napoli, col figlio per mano e la figlia che la guarda dalla finestra. Una sparatoria assurda in un giorno qualunque. Abbiamo provato ad entrare nei pensieri di quella vittima innocente.

Metti che sei una giovane donna, sei una mamma, hai trentanove anni e stai tornando a casa in una calda tarda mattinata di giugno, col tuo bambino per mano, dopo aver assistito alla recita di fine d’anno dell’asilo, frequentato proprio da quel bimbo, che ti stringe la mano, tenero ed emozionato, lì sul palco, insieme agli altri, tutti bravissimi, eh… e brave le maestre che li hanno preparati e gioiose le canzoni che hanno cantato in coro, hanno ricordato tutte le parole dei canti e delle poesie, hanno recitato davvero bene, nonostante il caldo e la tentazione, subito accantonata, grazie alle occhiate in tralice delle insegnanti, di mandar baci alle mamme, o addirittura di andarle ad abbracciare, abbandonando precipitosamente la scena.

Metti che sei a Napoli, al Vomero, sulla Salita Arenella ed è una gloriosa e sudata giornata estiva e ci sei, ormai sei quasi sotto casa e pensi che hai fatto bene a preparare l’insalata di riso stamattina presto, perché, col caldo che fa, tuo marito non avrà voglia di mangiare altro che una cosa fresca e devi ritirare gli abiti in lavanderia, la scuola è finita, andrete tutti quanti al mare, appena possibile, quando lui sarà in ferie ed un po’ ti manca quella gioia e quella stanchezza a fine anno scolastico di quand’eri insegnante, ma, in fondo, hai fatto bene a lasciare e restare a casa ad occuparti dei figli, del piccolo che hai per mano e della grande, che è lì, affacciata al balcone e vi saluta con la mano.

La grande. Quanto è bella! E com’è intelligente e come sa far valere le sue ragioni, tu, per questo la chiami l’avvocato della classe, perché ti hanno informato le maestre che, anche se ha soltanto dieci anni, sa esporre proprio per bene ciò che impara ed è sempre lei a farsi portavoce delle richieste dei compagni: «Possiamo fare un disegno? Possiamo giocare dieci minuti in più dopo la merenda?»

Tutto normale fin qui. Anche la lunga coda di auto sulla salita, il traffico, le sirene delle ambulanze in lontananza, che si fondono con gli echi delle canzoni dei neomelodici, provenienti dalle finestre aperte, con le voci dei passanti intorno a te. Ma, in un attimo, una discrepanza, un blocco all’ingranaggio della scena da quasi ora di pranzo della tua strada qualunque, dei tuoi pensieri leggeri, ininterrotti, rallentati solo, qua e là, dalle domande del tuo piccolino, che ancora ti chiede se è stato bravo alla recita della scuola. Una moto si ferma, sgommando. Ne scendono due tizi e sparano all’impazzata. Quanti sono i colpi? Quaranta diranno. Ma tu non hai il tempo di contarli, né di capire, né di metterti al riparo. E poi quell’urlo. È il grido della grande, della tua bambina, affacciata al balcone, che ti stava salutando.

Metti che, mentre stavi tornando a casa, in un giorno normale, un commando di killer la fa finita col tizio che stava passando non lontano da te, metti che il tizio barcolla e cade e cade l’amico che era con lui, che il ragazzo, lo studente che tante volte hai visto nel quartiere, caccia un grido e piomba in terra, ferito alla schiena, metti che il sorriso ed il saluto con la mano, che stavi facendo, in risposta alla tua bambina, si trasformino in un fermo immagine. Il colpo. Allo zigomo. Il buio totale.

Cadi anche tu. Senza aver lasciato la mano del tuo bambino. Che piange, disperato.

La Silvia di cui ho immaginato i pensieri di giovane mamma, che torna a casa in un giorno normale, squarciato dall’altrettanto normale risuonar di pallottole in pieno giorno, suono tristemente tipico della mia città, è veramente esistita ed ha ingentilito la terra con il suo sorriso per soli trentanove anni. È morta, uccisa da uno di quei quaranta colpi, vent’anni fa, l’11 giugno del 1997. Si chiamava Silvia Ruotolo ed è una vittima innocente della camorra. Nel sito della Fondazione a lei dedicata si può leggere la sua biografia e la ricostruzione di quel terribile giorno.

La bambina che era al balcone, sua figlia, Alessandra Clemente, è oggi assessore  alle Politiche giovanili, innovazione e creatività presso il Comune di Napoli, incarico che le è stato conferito dal sindaco Luigi De Magistris, nel 2013. In una intervista che ha rilasciato a “Repubblica”, Alessandra dice: «Oggi mi sento più forte di chi ha ucciso mia madre, vent’anni fa».

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