ATTUALITÀ STORIE

Uno scatto d’ira per un cavallino di legno

La storia di Caino e Abele la conoscono tutti: il fratricidio è antico quanto il mondo, ma credere che sia davvero possibile è difficile per tutti. Con altrettanto scetticismo si pensa sempre che l’infanzia sia innocente. Ripescando nei suoi lontani ricordi di cronista di nera, Mario Del Gamba ha ritrovato un episodio di quelli che Fabrizio De Andrè avrebbe rubricato come «una storia sbagliata, una storia da dimenticare». Eccola, nuda e cruda.

Talvolta, nella mia mente di vecchio giornalista riaffiorano, affastellati alla rinfusa, ricordi di fatti, ma soprattutto misfatti, che in 40 anni da cronista di nera e giudiziaria, ho raccontato percorrendo la Toscana in lungo e largo. Ma in particolare mi capita di rievocare mentalmente un tragico, quanto singolare episodio, di cui fu protagonista un bambino di 10 anni e da cui scaturì un giallo impenetrabile.

Ebbene questo ragazzino, che chiameremo Andrea, dopo aver ucciso accidentalmente il fratellino di sei anni, ne fece sparire il cadavere e riuscì a tenere in scacco per mesi magistrati e carabinieri, allontanando da sé ogni sospetto ed escogitando uno stratagemma che mi verrebbe da definire addirittura diabolico, se il termine non fosse sproporzionato, anzi azzardato, pensando all’età del protagonista.

Un breve accenno all’antefatto per meglio inquadrare gli avvenimenti, che risalgono a diversi anni fa. Ne è teatro un piccolo spiazzo davanti a un casolare isolato di montagna, distante da un paesino posto a una decina di chilometri da Castiglion Fiorentino, nell’Aretino. Qui Andrea sta giocando con il fratellino Alessandro, che è sordomuto.

Secondo una possibile ricostruzione successiva dell’inchiesta giudiziaria, ad un certo momento fra i due bambini scoppia un litigio per disputarsi un giocattolo a forma di cavallino, abbozzato rudimentalmente dal loro papà su un pezzo di legno. D’un tratto Andrea ha uno scatto d’ira e colpisce più volte alla testa il fratellino con il giocattolo. Purtroppo l’esito è letale perché Alessandro muore subito e il fratello, freddamente, ne fa sparire il corpo trascinandolo nella boscaglia circostante.

Il delitto non ha testimoni: in casa c’è solo la vecchia nonna paralitica e malata di demenza senile. I genitori sono al lavoro fin dalla mattina presto. Il papà è un boscaiolo-bracciante con un impiego precario in una piccola azienda agricola, nella quale collabora anche la moglie. E sono appunto i genitori che rientrando la sera si accorgono che Alessandro non è in casa. Inutile chiedere spiegazioni alla nonna e nemmeno ad Andrea, che insiste nel sostenere di aver lasciato il fratellino che giocava sull’aia mentre lui era entrato in casa per fare i compiti (frequentava la quinta elementare).

I momenti successivi sono facilmente immaginabili. Iniziano ricerche frenetiche con grida di richiamo che echeggiano e si perdono nella vallata. Le urla di mamma e papà «Alessandrooo, Sandrinooo» sono mosse d’istinto, dall’ansia e dal terrore crescente pur nella consapevolezza che il bambino non può né sentire né rispondere per le sue menomazioni di sordomuto.

Poi, prima che cali la notte, la corsa a perdifiato del papà in paese per avvertire i carabinieri. E immediatamente viene organizzata una battuta che si protrae fino a notte fonda, ma senza esito.

L’indomani mattina, le ricerche riprendono con l’intervento di altre forze dell’ordine e di volontari del paese che perlustrano, ad ampio raggio, la zona montagnosa mentre gli investigatori interrogano genitori e fratellino nel tentativo di ottenere qualche indizio che possa orientare le prime indagini. Ma la giornata si conclude con un nulla di fatto, sia sul fronte delle ricerche che su quello investigativo: Alessandro è sparito non si sa dove né perché. E il giallo si infittisce.

Dalla procura di Arezzo arriva un magistrato che coordina l’inchiesta, mentre in paese cominciano a serpeggiare inquietudine e preoccupazione nel timore che altri bambini possano sparire nel nulla come Alessandro. La pista di un rapimento da parte di un maniaco viene subito esclusa per mancanza di qualsiasi indizio, così come quella della disgrazia o di un allontanamento volontario del bambino.

Per circa una settimana, le ricerche proseguono invano con sempre minori speranze, mentre di pari passo si riducono le possibilità di dare una svolta alle indagini. Ed è in questa drammatica situazione di stallo che avviene un fatto che rende il mistero ancor più impenetrabile. Al magistrato inquirente, anche in mancanza di un qualsiasi altro indizio, è rimasto qualche dubbio solo sulla versione dell’accaduto ripetuta per giorni da Andrea, ma ovviamente non ha potuto insistere né fare pressione su un bambino di 10 anni. Tuttavia ha incaricato un carabiniere in borghese di “tenerlo d’occhio” anche con il pretesto di una eventuale protezione.

Ed ecco l’episodio clou del giallo: una mattina l’investigatore nota che Andrea, recandosi a scuola in paese, raggiunge l’ufficio postale e quasi di soppiatto mette un biglietto nella buca delle lettere. È un foglio di quaderno piegato in quattro, indirizzato a «Gesù bambino in paradiso». All’interno (non ricordo il testo esatto ma il senso era questo: una implorazione al Bambin Gesù affinché faccia tornare a casa Sandrino perché lui, i genitori e la nonna vivevano nella più profonda disperazione).

Fu un colpo di scena che lasciò gli inquirenti sbigottiti e disorientati. Collavano gli ultimi sospetti su Andrea perché quel biglietto rappresentava un alibi insormontabile. Nessuno, credo, fu nemmeno sfiorato dal dubbio che un bambino di 10 anni potesse escogitare una simile messa in scena, ovvero un così geniale depistaggio. L’inchiesta si arenò nel buio più completo, nonostante per altri quattro mesi si fosse cercato qualche indizio seppure con indagini ormai scoordinate e velleitarie.

Ma finalmente, a settembre, la soluzione del mistero sulla sparizione di Sandrino: all’apertura della campagna venatoria, il cane di un cacciatore fiuta nel fitto di un cespuglio in un anfratto il cadaverino in avanzato stato di decomposizione. Inorridito il cacciatore dà l’allarme e accorrono i carabinieri. È a questo punto che il magistrato rompe ogni indugio e tenta il tutto per tutto pur sapendo di rischiare. «Portatemi qui Andrea» ordina ai carabinieri. E quando il bambino viene messo davanti a quei miseri resti lo accusa con tono perentorio: «Guarda come hai ridotto il povero Sandrino, confessa che sei stato tu ad ucciderlo».

Di colpo Andrea, forse provato anche dal rimorso covato per mesi, crolla e piangendo ammette il delitto. Più tardi in caserma racconterà che Sandrino era morto dopo che lo aveva colpito in testa con il cavallino per poi spiegare anche di averlo trascinato fino a quella forra nel bosco.

«Ho giocato d’azzardo rischiando grosso, se Andrea fosse stato innocente. Ma dentro di me avevo intuito che la soluzione del giallo non poteva essere diversa: solo lui poteva aver ucciso il fratellino», si sfogò poi con me il magistrato che conoscevo da anni.

In sintesi il finale di questa inquietante tragedia: il bambino affidato ad un istituto giudiziario per minori non imputabili, i genitori straziati in una angoscia senza fine.

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