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Viaggio a Villa Miralago, dove l’anoressia non fa più paura

Oltre 3 milioni e mezzo di persone, per lo più giovani, per lo più donne, soffrono di anoressia, bulimia e, più in generale, di disturbi del comportamento alimentare che nel 2016 hanno provocato in Italia più di 3.000 vittime. A Cuasso al Monte, in provincia di Varese, negli spazi di Villa Miralago, un tempo sede di un Centro benessere Messegué, una comunità con una equipe multidisciplinare, dove chi soffre riscopre il rapporto con l'Altro. Il tentativo di costruire una rete nazionale per far fronte a questi disturbi. FRANCESCA BRANDES

Giovanna è bellissima, alta ed esile nei suoi sedici anni: «Sto per uscire – confessa – dopo quattordici mesi di residenza, e ho un po’ paura, anche se ora ho le idee più chiare». Il sole di fine estate filtra da un’ampia vetrata, negli spazi di Villa Miralago, a Cuasso al Monte, in provincia di Varese. Qui è ospitata una residenza sanitaria comunitaria che accoglie persone che soffrono di disturbi del comportamento alimentare (DCA): anoressia, bulimia, disturbo da alimentazione incontrollata, obesità. Si tratta della più grande struttura in Italia, e tra le maggiori in Europa: con i suoi 62 posti letto (50 per adulti e 12 per i minori), accreditata e contrattualizzata con Regione Lombardia, ospita sia pazienti lombardi che provenienti da tutto il territorio nazionale e comunitario. Alle tre Comunità già presenti (Camelia, Gardenia e Primavera, quest’ultima per pazienti in età evolutiva), è stato aggiunto nel luglio di quest’anno un quarto nucleo, il progetto Ginestra «per offrire uno spazio qualificato di cura per i casi con gravità marcata, sia sul profilo metabolico-internistico che psicopatologico» spiega il direttore sanitario Leonardo Mendolicchio, psichiatra e psicoterapeuta.

Villa Miralago ha aperto le porte a TESSERE in due giorni di normale lavoro di équipe, e la prima impressione è quella di non trovarsi in un luogo di cura. Niente camici bianchi, l’atmosfera quanto più lontana si possa pensare da un ambiente ospedaliero, dalle stanze agli spazi comuni, arredati con colori solari. Ci sono una palestra e una piscina coperta, un parco di circa diecimila metri quadri, studi per le terapie di gruppo, laboratori espressivi ed artistici. Prima che la Villa fosse trasformata in una struttura per i DCA, qui aveva sede un Centro benessere di Maurice Messegué, un paradiso con vista sul lago a poca distanza da Lugano. Eppure, tra queste mura così accoglienti, il dolore esiste, è tangibile, anche se si comprende che qui curanti e curati lo combattono insieme. Lo si nota anche dalla disponibilità con cui le giovani pazienti si raccontano, ammettendo blocchi iniziali e resistenze all’ingresso in comunità. I nomi sono d’invenzione, per rispetto della privacy, ma loro ci mettono la faccia, con una lucidità e una naturalezza che colpiscono: «Facevo agonismo, ginnastica artistica – Giovanna è riservata, ma esplicita – e il mio sogno erano le qualificazioni nazionali. Un giorno, la nostra allenatrice ha cominciato a portare in palestra una bilancia… sosteneva che era utile controllassimo il peso, se volevamo ottenere dei buoni risultati. Ho cominciato a mangiare di meno, prima della “pesata”: volevo essere brava, volevo farcela». Poi, la ragazzina non riesce più a controllare la situazione, cominciano i ricoveri: «Ad un certo punto – racconta – ero troppo debole. Avevo raggiunto la Nazionale, ma non potevo più reggere il ritmo… e mi è crollato il mondo addosso. L’ingresso a Villa Miralago è stato faticoso, ma col tempo ho capito che qui bisogna spostare gli obiettivi e, soprattutto, che l’energia che ponevo nel voler ottenere il massimo (e oltre) da me, si poteva utilizzare in altre forme, magari insieme».

Appare evidente che quell’insieme è una parola d’ordine importante. Più ancora che importante, vitale: secondo i dati ufficiali, diffusi nel marzo di quest’anno – in occasione della settima Giornata del Fiocchetto Lilla per la sensibilizzazione alle problematiche dei DCA – anoressia e bulimia (e, più in generale, tutti i disturbi del comportamento alimentare) nel 2016 hanno provocato in Italia più di 3.000 vittime e riguardano oltre 3 milioni e mezzo di persone, per lo più giovani. Una reale emergenza: «Purtroppo il numero dei pazienti non accenna a diminuire – ha commentato  Laura Dalla Ragione, referente del Ministero della salute e responsabile della Rete DCA dell’ASL Umbria 1 – In più, si è abbassata moltissimo l’età di esordio, si ammalano bambini di otto-dieci anni, con conseguenze gravissime. Si sono diffusi anche i Disturbi selettivi nell’infanzia. Questo è il motivo – ha precisato la Dottoressa Dalla Ragione, che dirige il Centro Palazzo Francisci di Todi, con cui Villa Miralago interagisce in termini di collaborazione scientifico-organizzativa – per cui è stata istituita la Giornata del 15 marzo. L’idea è venuta a Stefano Tavilla, presidente dell’associazione “Mi nutro di vita” e padre di Giulia, una ragazza morta per problemi legati alla bulimia, mentre era in lista di attesa per entrare in un centro specializzato. Anche su questo dobbiamo focalizzare l’attenzione: in molte regioni italiane non ci sono strutture adeguate e ciò determina inevitabilmente una migrazione, con ritardi nelle diagnosi e nelle cure».

Di anoressia si continua a morire: nonostante il Ministero della salute abbia messo a punto una mappa delle strutture e delle associazioni che si occupano in Italia dei DCA, consultabile su www.disturbialimentarionline.it, e sia stato attivato il numero verde 800 180969,  risale ad un mese fa il caso di Maria Elena Pompilio, la ventiseienne di Chieti morta  mentre attendeva il via libera per potersi curare in un centro specializzato fuori Regione. Eppure, nei migliori dei casi, quando si riesce a realizzare un’efficace collaborazione tra privato e pubblico, la possibilità di uscirne esiste: «Ci sono domande cardine, quesiti fondamentali che pazienti e famiglie ci pongono all’arrivo in Villa – spiega Leonardo Mendolicchio – Cosa significa guarire? Vuol dire, forse, migliorare il peso? Ritornare ad avere il ciclo mestruale? Smettere di abbuffarsi, di vomitare, o cosa? Chiedersi tutto ciò è legittimo. Io sostengo che una cura ha senso solo se si possono dare risposte chiare ed efficaci, e l’esperienza mi ha insegnato a rispondere con nettezza: guarire, ne sono certo, vuol dire non aver più bisogno di manomettere il proprio rapporto con il cibo e con il corpo. Fino a quando le paure, le angosce, i fantasmi continueranno ad inquinare la libertà di mangiare o di apparire, non può esserci guarigione, al di là di ogni peso immaginabile, di ogni abitudine alimentare».

Leonardo Mendolicchio

Guarire come libertà. Libertà di scegliere e di decidere: «Decidere è stato fondamentale – conferma Giovanna – Per esempio, io ho pensato che, quando uscirò di qui, voglio studiare Dietologia all’università, per dare una mano ad altre persone, come hanno fatto con me. Qui dentro, è il gruppo che ti motiva». Visitando i nuclei, ci si rende conto di quanto l’idea di équipe conti in questo contesto: «In effetti – conferma Mendolicchio – il metodo di cura che abbiamo scelto di attuare è integrato, multidisciplinare e analiticamente orientato. Integrato, perché correla la cura medico-nutrizionale con gli aspetti psichici, creando un percorso terapeutico mirato. I piani dietologici sono elementi che non vengono mai valutati a prescindere, ma sempre indirizzati ai bisogni di cura. Così l’aumento ponderale, auspicabile in caso di anoressia, l’eliminazione dei comportamenti di compenso, così come le abbuffate nei casi di bulimia, non sono mai frutto di rigidi protocolli, ma derivano da un’analisi dettagliata dell’equilibrio psicofisico del paziente. Poi, è fondamentale il secondo aspetto, la multidisciplinarietà. – continua – Le figure coinvolte nella cura devono presentare profili diversificati. Qui, in équipe, sono presenti psichiatri e neuropsichiatri infantili, il medico nutrizionista, psicologi e psicoterapeuti, dietisti, educatori professionali, tecnici della riabilitazione corporea, psicomotricisti, chinesiologa, operatori di arteterapia e teatroterapia. Senza dimenticare infermieri e personale ASA e OSS. Sicuramente, è un’arma in più che però va ben gestita ed organizzata, pena la confusione metodologica ed assistenziale…». Resta da chiarire in cosa un approccio analiticamente orientato, nella cura dei DCA, possa fare la differenza: «Un metodo di cura di questo tipo – risponde – ha nel suo aspetto più radicale l’idea che un sintomo psicofisico sia la risultante di una serie di passaggi profondi ed inconsci che poi si manifestano attraverso la sofferenza più evidente. Allora si lavora innanzitutto su quella profondità, – prosegue – non con lo scopo di trovare chissà quali verità, ma con l’obiettivo di permettere a ciascun essere umano di essere libero da ogni condizionamento inconscio, da ogni sintomo che ingabbia la sua vita. È per questo che la cura dei DCA, a Villa Miralago, non passa solo attraverso la correzione dei comportamenti alimentari patologici». Classe 1977, foggiano, Leonardo Mendolicchio dimostra un entusiasmo trascinante, anche per quel che concerne il rapporto tra l’istituzione “Comunità di cura” e la società esterna. Ha già al suo attivo, oltre a numerose pubblicazioni scientifiche, un libro di divulgazione sulle tematiche dei DCABisogna pur mangiare, con prefazione di Michela Marzano, Edizioni Lindau, 2017, e un altro in cantiere sulla sua esperienza clinica: «Dobbiamo parlarne, e nel modo più chiaro possibile. – commenta – Bisogna far capire alle pazienti (sono soprattutto femmine, anche se è in aumento l’incidenza delle patologie nei maschi) che hanno la possibilità di iniziare a fidarsi di qualcuno e di nutrire la loro esistenza per intero, aprendosi alla relazione con l’Altro. Ecco, esserci per l’Altro è il nostro motto.

«Ero io che, all’inizio, non volevo esserci. – racconta Sara, trevigiana, non ancora maggiorenne – Volevo andarmene, scappare dall’imposizione di regole, il cellulare concesso solo due ore al giorno, i pasti ad orari fissi. Mi ribellavo, perché non comprendevo l’idea di una gestione comune dei problemi. Che ci stavo a fare qui? Che ci stavo a fare, qui, assieme ad altre persone estranee? Poi, dapprima controvoglia, riluttante, con paura, ho compreso che tutto quell’Altro, i rapporti umani, i miei veri desideri, le passioni, non li conoscevo affatto. Adesso finalmente, se mi guardo allo specchio, mi vedo. E il mondo, ora che sto per uscire, mi spaventa un po’ meno». Tuttavia, “essere l’Altro” di un soggetto anoressico comporta, per medici, terapeuti e tecnici, un coinvolgimento pesante ed inevitabile: «Certo – conferma il direttore sanitario – posso chiarire con una metafora ben precisa. Essere l’Altro per il soggetto anoressico significa farsi mangiare. Come ha sottolineato Jacques Derrida, il mangiare è la metonimia dell’introiezione. Per semplificare, noi mangiamo carne, cereali, verdure, frutta che sono “il prodotto dell’Altro”, e per far sì che tutto sia mangiabile, bisogna renderlo gradevole, digeribile. Tuttavia, quando un soggetto sperimenta un rapporto con un Altro indigeribile, la conflittualità che s’innesca può traslarsi in modo negativo sul cibo, come reazione sintomatica al trauma. È a questo punto – prosegue – che interviene l’équipe, che si fa carico del problema facendosi mangiare, facendo comprendere che il rapporto con l’Altro può essere interiorizzato, dentro e fuori di qui».

“Uscire”, dai racconti di queste ragazze risulta chiaro, è una questione importante. Uscire da sé fino ad incontrarsi di nuovo, uscire dai cancelli del parco: «Quando c’è il momento di svincolo, dopo periodi anche lunghi di residenza, vuol dire che tutto quello che è stato fatto prima ha avuto un valore – spiega Mendolicchio – Penso sia fondamentale gestire bene questa fase, perché in fondo è l’ultimo atto nel quale il soggetto che ha sofferto di DCA sperimenta che, anche in questo caso, non esiste quel fantasma di morte che aveva costruito. È importante comprendere che, nel Simbolico, dall’Altro non ci si separa mai». Poi, c’è chi ritorna in visita, come Luciana. La riconoscono, la salutano: una donna giovane, ma matura, con un compagno e tanti progetti di vita. Lei, che quando è entrata qui non si sentiva mai adeguata, lavora in una cooperativa in cui hanno trovato occupazione persone diversamente abili, e ha imparato a gestire il rapporto con l’Altro, fino a farne una caratteristica specifica della propria professione: «Fino a capire – racconta sorridendo – che è bello anche essere l’Altro di qualcuno». Tante storie che emergono dai posti segnati a tavola, dai manufatti – qualche volta splendidi – realizzati nell’atelier di arteterapia, nei laboratori di scrittura. A marzo di quest’anno, i ragazzi di Villa Miralago hanno anche proposto, al Teatro Santuccio di Varese, lo spettacolo Labirintika, per riflettere sulle tematiche che più stanno loro a cuore: la dimensione della malattia, ma anche il percorso di cura e lo spaesamento di chi sta attraversando una fase di trasformazione esistenziale. «C’è tutto un mondo intorno, dentro e fuori di qui; – commenta Mendolicchio –  famiglie che devono passare dal banco degli imputati a quello dei testimoni; una società che troppo spesso non è sufficientemente informata; un sistema di luoghi dell’assistenza che non dialoga, troppo isolato, o carente».

Tuttavia, in questa situazione di autentica emergenza sociosanitaria, qualcosa si trasforma, ed è un’ottima notizia. Sta nascendo su tutto il territorio nazionale la rete Ananke, Centri per la cura dei disturbi alimentari, coordinati sul versante clinico ed organizzativo dal dottor Alessandro Raggi, psicoterapeuta, psicoanalista:  strutture ambulatoriali autonome, in cui esperti di DCA, organizzati in sinergia tra loro e con la supervisione scientifica di Villa Miralago, possono prendere in carico le persone in difficoltà. Nel Centro di Venezia, diretto da Giuliana Grando, è stato inserito – accanto ai servizi dedicati alla genitorialità e all’adolescenza –  anche uno sportello specifico dedicato alla violenza (in particolare contro le donne): presa d’atto politica, testimonianza di quell’essere insieme “dentro e fuori”, soprattutto “con l’Altro”. Le persone seguite nei Centri Ananke (che significa “destino”, “necessità”, ma anche la volontà di farsi carico delle proprie scelte) possono contare – nei casi in cui si renda necessario – su Villa Miralago per essere accolte in una determinata fase del proprio percorso di cura. Altrettanto, gli ospiti della struttura di Cuasso al Monte, dimessi dopo la permanenza in Comunità, possono continuare ad essere seguiti presso i Centri Ananke più vicini alla propria casa. Inoltre, la rete dei Centri può costituire un punto di ascolto e supporto per i familiari ed il primo approdo per coloro che si trovano in lista d’attesa per un ricovero. Un’idea importante, a suo modo rivoluzionaria, che consente di connettere professionalità nell’esercizio della pratica clinica, solidarietà, conoscenze. Di questi tempi, quasi un’eresia.