CRITICA FUMETTI

Zorry Kid, tra fumetti e impegno

Mantello rosso, pantaloni e cappello celesti, i guanti bianchi e l’immancabile mascherina nera sugli occhi. Lui è Zorry Kid, uscito dalla geniale matita di Benito Franco Jacovitti nel 1968 e che i meno giovani ricorderanno per le sue avventure surreali, lo scarso coraggio, la bislacca identità pubblica. Il Piccolo Zorro (Kid, appunto) è stata la parodia meglio riuscita del più coraggioso e prestante cavaliere vendicatore degli umili e dei poveri. Certamente non è l’opera più celebre (titolo che spetta a Cocco Bill del 1957) del disegnatore molisano, ma si è comunque guadagnato l’olimpo del fumetto almeno fino a metà degli anni Settanta.

Il nome – è evidente – lo ha preso in prestito dal ben più famoso Zorro, anche se, per essere precisi, la vera fonte d’ispirazione è stato Zorro il Vendicatore, protagonista della serie televisiva della Disney, con Guy Williams a interpretare il nobile Don Diego de la Vega. Infatti, è stata questa serie, e non il libro del 1919 (La Maledizione di Capistrano del canadese di Johnston Mccully, in cui per la prima volta compare Zorro), a creare l’ambientazione e i personaggi che più vengono ricordati, come il sergente Garcia.

Se Zorro, sotto la maschera, cela il nobile virtuoso Don Diego de la Vega, che disprezza la violenza, ma ha a cuore il destino dei più vulnerabili, Zorry Kid nasconde il signorotto Kid Paloma, smidollato amante del flamenco, apparentemente suo unico interesse. Contro di lui, il sergente Martin Pelota (versione jacovittiana del panciuto Garcia) e il suo superiore Perfidio Malandero. Ad aiutarlo nelle sue avventure, il cavallo Saratoga (anche lui mascherato per l’occasione) e il fidato maggiordomo Carmelito Battiston, che risalta su tutti gli altri personaggi perché il suo baloon è privo di scritte, in tutte le vignette in cui sembra sul punto di parlare. Il personaggio, infatti, sa leggere ma non scrivere e l’autore ha deciso di mostrare questa caratteristica con i fumetti vuoti. Anche Zorro, del resto, ha un fedele servitore, Bernardo, muto ma non sordo, e un cavallo, Tornado, inseparabile compagno di avventure.

La non completa scolarizzazione del maggiordomo Carmelito non era stata messa lì casualmente da Jacovitti. Il 1968 fu l’anno della scuola media unica, che aprì le porte dell’istruzione a tutti i ragazzi di ogni censo e classe sociale, segnando un grande passo avanti nella lotta all’analfabetismo, benché non risolvesse tutte le differenze: lo status familiare incideva ancora – e molto – sul rendimento scolastico, perché a prescindere dalla capacità di apprendere, forte rimaneva la differenza tra chi era facilitato nello studio perché di famiglia agiata, chi invece non lo era perché proveniva da famiglie di operai e contadini, scarsamente alfabetizzate.Del resto quelli erano anche gli anni in cui Don Milani (morto l’anno prima, nel 1967) insegnava i bambini poveri nella sua scuola di Barbiana, erano gli anni di Lettera ad una professoressa e il tema della discriminazione scolastica era molto sentito.

Con Carmelito Battiston, semi-analfabeta, Jacovitti portava nel fumetto, quindi, un grande problema sociale senza che molti se ne accorgessero, vedendo nelle strisce dei giornalini una forma poco impegnata di lettura. Non passò, invece, inosservato che la lingua dei baloons non fosse l’italiano. Per rendere il fumetto più realistico, l’autore aveva, infatti, utilizzato lo spagnolo, ma di un tipo maccheronico, trasformato in una lingua ibrida fatta dai vari dialetti parlati dalla popolazione meno istruita del Paese: così il governatore Don Pedro Magnapoco parla uno spagnolo un po’ troppo simile al dialetto napoletano (giustificato dall’autore, con il passato da vicerè di Napoli del personaggio), altri personaggi usano parole prese in prestito dal dialetto veneto o lumbard. Questa rappresentazione linguistica, che doveva rendere più comico il fumetto e che era già sperimentata in altre strisce (emblematici i pellerossa di Cocco Bill che parlano il dialetto napoletano, misto a bergamasco), fu aspramente criticata da chi pretendeva che i fumetti destinati ai ragazzi fossero, invece, scritti in un italiano corretto. A fare da contrappasso, lo spagnolo maccheronico che conteneva forme più colte e discriminatorie per chi era meno istruito.