In un’Italia che ha riscoperto i Papi (due in vita, tre nelle fiction e chissà… tra qualche anno ne avremo qualcuno alle prese con una moglie che vuole divorziare) un ritorno all’antico non può che fare piacere (come un vin brulé mentre fuori nevica). Oggi, 17 gennaio si ricorda Sant’Antonio Abate. Nel nostro martoriato e povero Paese esiste una vera e propria venerazione per questo Santo (da non confondere con Antonio patrono di Padova). Se andate su internet vedrete decine e decine di piccoli eventi, sagre, feste, incontri nei più sperduti paesini appenninici (soprattutto appenninici perché i tedeschi dell’Alto Adige hanno altre preferenze).
Questa data ricorda la sua morte. Domanda: come mai questo italico fervore per uno che non ha niente a che fare con noi – intendo noi cattolici o sé dicenti cattolici nostrani? Bah! Era un eremita egiziano (già Salvini potrebbe mettere le mani sulla pistola). Visse nel IV secolo dopo Cristo e – dice la sua biografia – fu il precursore del “Monachesimo cristiano”, ovvero della scelta di passare la vita in solitudine per ricercare una comunione più intensa con Dio. In epoca medievale veniva adorato come patrono dei macellai, dei contadini e degli allevatori oltre che protettore degli animali domestici. Chi scrive, da bambino, nella ricca a obesa Emilia-Romagna il 17 insieme ad altri infanti come me si andava in Chiesa per farsi benedire dal prete dei piccoli crostini di pane (piuttosto cattivi) che la tradizione diceva portassero fortuna. Sempre il 17, i vecchi raccontavano a noi boccaloni di cinque o sei anni che era l’unica notte in cui gli animali della stalla parlavano tra di loro raccontandosi – si supponeva – aneddoti e barzellette su quel crapulone del loro padrone.
Antonio, dice la tradizione, era anche un taumaturgo capace di guarire le malattie. Nella credenza popolare fu anche un antesignano di Google maps dato che, se invocato, era capace di far ritrovare le cose perdute (strade, oggetti, fors’anche vecchi amori svaniti). Si dice nel Nord Italia: «Sant’Antoni dala barba bianca fam trua quel ca ma manca» e al Sud – dove viene spesso chiamato Sant’Antuono- «Sant’Antonio di velluto, fammi ritrovare quello che ho perduto».
Breve nota biografica: nacque in Egitto. A vent’anni abbandonò ogni cosa per vivere in una plaga deserta e in seguito si trasferì sulle rive del Mar Rosso, dove fu anacoreta fino agli 80 anni, poi morì. La sua fama di guaritore chiamò genti da ogni dove. Si dice che anche l’imperatore Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. Da allora Antonio è il “Grande Guaritore” capace di sconfiggere le malattie più terribili – il fuoco di Sant’Antonio è la più nota– e di lenire il dolore dello spirito. La sua vita è stata raccontata da un discepolo, sant’Atanasio, che contribuì a diffonderne il mito. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino Daia. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Concilio di Nicea. Non prese mai una barca per andare a Roma. Fu la sua fortuna. Metti mai che i porti fossero chiusi…