L’indipendenza, come rivela la parola, è la condizione di chi non è più dipendente, di chi non dipende da nessun altro, di chi ha gli strumenti e le capacità per farcela da solo. Lo sono i popoli che si sono liberati dal controllo asfissiante degli invasori, lo sono i cuccioli che pochi giorni dopo la loro nascita sono già in grado di camminare e di cercare il cibo da soli, lo sono le persone che hanno raggiunto, negli anni forse, la capacità di contare quasi solo sulle proprie forze.
L’indipendenza rende libera, dona quel senso di onnipotenza per cui ci si sente capaci di fare tutto, dal lottare per il proprio Paese a costo della vita al riempire una valigia di qualche vestito e poco altro e partire in solitudine.
Raggiungere l’indipendenza è un obiettivo di molti, lo è stato in passato e lo è ancora oggi, per chi si sente succube, zoppicante in un mondo che ci vuole tutti centometristi, desideroso di essere in grado di fare tutto da solo. È la doppia faccia dell’indipendenza, che da un lato è un bellissimo slancio di libertà e dall’altro diventa poi spasmodica ricerca di qualcosa che, spesso, non si sa nemmeno cosa è.
«La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza», diceva Pasolini. Una cruda e amara verità, quella che fa sì che una cosa tanto agognata si riveli poi il peggiore degli incubi, in un circolo vizioso di ricerca di serenità.
Come in tante altre cose della vita sembra necessario raggiungere un equilibrio, che permetta di mantenere la propria indipendenza senza rinunciare agli altri, senza dimenticarsi degli altri, senza credere di essere in grado di fare qualsiasi cosa senza l’aiuto degli altri.
E allora l’indipendenza, forse, non è altro che riconoscere se stessi come individui in grado di fare tutto, ma che non sempre vogliono farlo perché, a volte, è bello non doverlo fare. Perché è bello essere indipendenti, ma non soli.