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Levi, quest’uomo davvero

Giovedì 14 novembre alla libreria Rinascita di Sesto Fiorentino, per iniziativa del Club Jane Austin e del Salotto Conti, Paolo Vannini ha presentato, nell’ambito delle manifestazioni per il centenario della nascita di Primo Levi, la biografia dello scrittore torinese scritta da Daniele Pugliese e pubblicata da TESSERE, Questo è un uomo. Riportiamo la trascrizione della sua presentazione.

 

Voglio cominciare con un ricordo personale. Avevo circa vent’anni e andai a Torino a trovare i miei zii e mio cugino, che allora abitavano in quella città. Nella loro casa ebbi occasione di conoscere Renzo Levi, figlio di Primo, che era amico e compagno di scuola di mio cugino nel rinomato liceo classico D’Azeglio. Praticamente lo conobbi appena ma ricordo di aver notato una forte somiglianza fisica col padre.

Qualche giorno fa, sapendo di dover partecipare a questa serata, ho telefonato a miocugino pregandolo di dirmi quello che ricordava della famiglia Levi. E lui mi ha raccontato che andava spesso a casa dell’amico, ne ricordava anche l’indirizzo, Corso re Umberto 75, e aveva parlato tante volte con Primo Levi ma mai in modo degno di nota. Lo ricorda come un uomo schivo, gentile, che parlava veloce mangiandosi un po’ le parole, ma sempre chiuso nel suo studio a leggere e scrivere.

Mi ha raccontato però soprattutto un episodio, abbastanza comico: la casa di Levi, una vecchia, bella casa torinese nella quale regnava un’atmosfera che a mio cugino appariva molto composta rispetto a quella casinista di casa sua, non aveva il soffitto piatto ma a volta, dunque concavo e per questo molto alto. Così mio cugino e Renzo Levi giocavano in casa a pallavolo. Una volta mio cugino fece una schiacciata talmente forte da far crollare l’intonaco di mezza parete. Mi ha detto: «fosse successo a casa mia mio padre, cioè mio zio, ci avrebbe mangiati vivi tutti e due, invece Primo Levi uscì dallo studio e si rivolse a noi ragazzi in modo così sereno e comprensivo, e così anche la moglie Lucia, da lasciarmi davvero sorpreso».

Poi però ha aggiunto: «peccato che non puoi parlare col babbo, cioè mio zio, perché lui lo conosceva meglio: erano insieme rappresentanti dei genitori al consiglio d’istituto del D’Azeglio».

Ecco io non potrò più interrogare mio zio perché è morto, ma mio cugino mi ha detto che lo zio, nonostante fosse politicamente di destra mentre Levi era di sinistra, ne aveva sempre parlato con grande stima e simpatia, come un uomo equo, equilibrato, tollerante, capace di ascoltare, rispettoso sempre.

Ma passiamo finalmente al libro dell’amico Daniele Pugliese, e cominciamo dal titolo: Questo è un uomo. Naturalmente è ispirato al libro di Primo Levi, Se questoè un uomo. Ma rimanda anchealla figura del filosofo Diogene che camminava per le strade in pieno giorno con una lanterna accesa dicendo «cerco l’uomo».

Ecco leggendo Primo Levi si ha proprio l’impressione, ce l’ha Daniele ma ce l’ho anch’io, di averlo trovato, di aver trovato un uomo. Naturalmente non nel senso di maschio ma in quello di essere umano, persona che sa essere uomo nel modo migliore.

Per Primo Levi una delle principali colpe dei nazisti è proprio aver reso non uomini gli uomini, cercando di cancellare la loro umanità, considerandoli Untermenschen, sottouomini, bestie o cose. E lo esprimevano con atteggiamenti che avevano valore simbolico come imporre un marchio sulla carne, come si fa con i buoi, tatuando una cifra che toglieva alle persone il nome e le faceva diventare numeri, oppure il viaggio dei prigionieri in vagoni bestiame chiusi, in modo da costringerli a giacere per giorni in mezzo ai propri rifiuti, o la mancata distribuzione di cucchiai, che pure c’erano, che costringeva i prigionieri a lappare la zuppa come cani, e così via.

Anche per Levi la persecuzione nazista è un unicum, un monumento di ferocia tale che in tutta la storia del mondo non c’è nulla di simile. Mai tante vite sono state spente in così poco tempo e con tanta crudeltà, che non si fermava neppure davanti alle donne, i vecchi, i malati, i moribondi. Nemmeno davanti ai bambini. Non c’erano bambini ad Auschwitz, non potevano essere usati per il lavoro e appena scesi dal treno erano subito avviati alle camere a gas o selezionati per esperimenti medici e poi soppressi. Un milione e mezzo di bambini morti. Anche questo è unico.

E il Lager era un modello, un modello del mondo, un’anticipazione di quello che sarebbe stato il mondo se il nazismo avesse vinto: da una parte la classe dei signori a dominare e dall’altra alcune razze umane completamente soppresse, ed altre che avrebbero formato un immenso gregge di schiavi a lavorare e obbedire. Il mondo sarebbe stato tutto un Lager, un enorme campo di lavoro e di sterminio. La famosa frase scritta sul cancello di Auschwitz, «Il lavoro rende liberi», va interpretata nel senso che «il lavoro degli schiavi rende liberi i padroni».

Ma quel mondo era l’inferno e quella frase significava in realtà: «lasciate ogni speranza o voi ch’entrate». Da Auschwitz si esce solo per il camino.

Però Levi riporta le parole di un compagno di prigionia: «il lager è una grande macchina per ridurci a bestie, ma noi bestie non dobbiamo diventare».E questo compagno gli insegna che per restare umani, anche nelle condizioni più disumane, è importante dare senso a ciò che si fa, dare importanza ai piccoli gesti perché dare un senso a quel piccolo gesto significa continuare a pensare che la nostra vita può avere un senso. Dice ancora quel compagno: «Dobbiamo lavarci la faccia, dare il nero alle scarpe non per il regolamento ma per dignità, camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, per restare vivi, per non cominciare a morire».

Chi è uomo? Primo Levi ci dà qualche spunto per rispondere a questa difficile domanda. Ricorda l’Ulisse dantesco: «fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». E dice poi dell’amico Lorenzo, a cui doveva la vita perché, per mesi, a suo rischio e pericolo, aveva portato a Levi del cibo: «ma Lorenzo era un uomo, la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo».

Allora Levi ci suggerisce che uomo è chi ha virtute, cioè valore morale, canoscenza, cioè un cervello pensante, e umanità, ossia è sensibile alla sofferenza degli altri e agisce, con coraggio, per alleviarla. Questi aspetti, moralità, pensiero, umanità, Levi li aveva tutti e allora di quest’uomo sobrio, discreto, timido, riservato, accogliente, colto, sincero, grande osservatore, maestro di dubbi, di domande, di chiarezza, di laicità, si può ben dire, con Daniele, che questo è un uomo.

Dopo il titolo del libro di Daniele, troviamo poi scritto biografia. Una biografia, si sa, è una ricostruzione letteraria della vita di un autore. Ma qui si tratta di una biografia sintetica, che non vuole raccontare tutto ma l’essenziale, come dimostra anche la mole abbastanza ridotta del libro. La sintesi coglie l’essenziale e lo sfronda del superfluo. Ma Daniele, in sintesi, attraversa tutte le tappe importanti del percorso umano di Primo Levi e commenta tutte le sue opere principali. Sintesi e completezza, binomio non facile, perché la sintesi, escludendo il superfluo, è nemica della completezza, e la completezza, includendo tutto, nemica della sintesi. Ma la biografia di Daniele riesce a realizzare questa difficile combinazione.

Poi c’è l’aggettivo appassionata. È interessante perché gli scritti di Primo Levi non vogliono essere appassionati. Lui stesso scrive: «ho scelto un linguaggio sobrio… pensavo che la mia parola fosse più credibile quanto più apparisse obiettiva e meno suonasse appassionata».

Dunque Levi ammette di temere che la passione possa orientarlo verso un’interpretazione soggettiva dei fatti facendo perdere obiettività, cui Levi teneva molto. Eppure questo scrivere non appassionato di Primo Levi a me pare anche il tentativo di equilibrare un troppo di passione e non riesca a nascondere come, sotto il linguaggio apparentemente asettico di osservatore, scorra un fiume di lava di grande emozione.

Comunque sia, Daniele invece la passione non vuole affatto nasconderla, la dichiara apertamente rivendicandola con l’aggettivo appassionatasubito fin dall’inizio, nel sottotitolo, e noi lettori la sua passione per questo autore la sentiamo vibrare in tutto il suo scritto.

Tuttavia adesso si tratta di capire soprattutto quali sono le tesi di fondo che il libro di Daniele sostiene perciò cercherò di mettere in evidenza qualche aspetto che mi sembra più importante.

Un primo punto. C’è una domanda centrale nel libro di Daniele e in tutta la letteratura critica sulla figura di Primo Levi. Può essere giudicato soprattutto o soltanto un testimone, e la sua opera una grande, preziosa, insostituibile testimonianza, destinata a mantenere viva la memoria di ciò che è stato per non dimenticare? Oppure è anche un grandescrittore? Questo l’enigma che pone la sua figura: la sua opera è solo testimonianza oppure è anche letteratura, e grande letteratura?

È evidente che non si può in nessun modo sminuire l’importanza che ha per Primo Levi il bisogno e il dovere morale di testimoniare. Presentarsi come testimone davanti al tribunale della storia e dire: «io c’ero, io ho visto, io ho le prove e una è questo numero tatuato sul mio braccio. Scrive Levi: io non credo che la vita dell’uomo abbia uno scopo, ma se penso alla mia vita uno solo ne riconosco, di portare testimonianza».

Portare testimonianza affinché ciò che è avvenuto non avvenga più perché ciò che è stato possibile è ancora possibile.Si legge nella poesia Shemà: «Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case…Meditate che questo è stato: vi comando queste parole scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via…»

Un incubo ricorrente tra i prigionieri era quello di tornare, raccontare e non essere creduti, neppure ascoltati. Il Lager è stato qualcosa di talmente abnorme da essere incredibile. Era quello che speravano e prevedevano i nazisti: «se lo racconterete non vi crederanno».

Allora si pone questo problema del rapporto tra testimone e scrittore in Primo Levi perché è così forte l’imperativo di testimoniare e ciò che ha testimoniato che questo aspetto balza fatalmente in primo piano relegando sullo sfondo il valore stilistico, letterario, della sua opera. Ma qui il giudizio di Daniele è nettissimo, senza se e senza ma: «un interrogativo…era davvero uno scrittore o il valore della sua opera è solo la parte memorialistica, il dovere della testimonianza? Lo si deve apprezzare solo per la pietà verso la tragedia subita o la sua è incommensurabile letteratura?»

Senza esitazioneDaniele risponde: «Siamo dinanzi a uno dei più sorprendenti scrittori di tutti i tempi». E questo giudizio non è affatto scontato, a lungo la critica lo ha considerato solo un testimone e non uno scrittore. Lo stesso Daniele rileva «come parecchi Soloni abbiano tardato molto a prendere atto della sua straordinaria lingua».

Dunque Levi grande scrittore. Ma che vuol dire essere un grande scrittore? Non basta scrivere cose intelligenti e profonde ma bisogna anche scriverle bene. Ossia essere grandi scrittori richiede il valore del contenuto ma anche dellaforma, non conta solo ciò che si scrive ma anche come si scrive. Daniele ricorda che proprio Levi aveva constatato che i suoi critici ponevano costantemente l’accento sui contenuti.

Ma com’è invece la forma, il modo di scrivere, lo stile di Primo Levi? È uno stile assolutamente semplice, ordinato, chiaro e distinto, sobrio, essenziale, denso, mai superfluo, alieno da amplificazioni e ridondanze, senza enfasi o retorica, aperto alla fantasia, allo sperimentalismo, al dialetto, con il gusto della brevitas, classico, bello. Levi scrive: «Ho sempre pensato che si deve scrivere con ordine e chiarezza, che scrivere è diffondere un messaggio e che se il messaggio non è compreso la colpa è del suo autore, che perciò uno scrittore beneducato deve fare in modo che i suoi scritti siano capiti dal massimo numero di lettori con il minimo di fatica».

E anzi Daniele sottolinea con tale forza la sua grandezza di scrittore da affermare che è proprio nel racconto breveche Levi si rivela un autentico maestro definendo la sua raccolta di racconti e saggi brevi delle vere Operette morali. Insomma, rispetto a una critica che per lungo tempo ha amplificato unilateralmente l’aspetto di testimonianza di Primo Levi sottovalutando quello letterario, Daniele sostiene con forza che il rapporto tra i due elementi, senza nulla togliere al primo, vada tuttavia riassestato.

Ma c’è un secondo punto. Primo Levi afferma, con la sua modestia, «mi sono limitato a riportare i fatti di cui ho avuto esperienza diretta». Però in realtà non si limita solo ai fatti, si chiede anche perché? Chiede la ragione, s’interroga sul senso dei fatti. Vuole capire. Tutta la sua vita è stato uno sforzo per capire ciò che ha vissuto.

Lui stesso scrive: «mi stava bene che alle giustissime impiccagioni(ecco questa giustificazione della pena di morte da parte di Levi è l’unico punto su cui mi sento in disaccordo con lui perché io, invece, sono contro la pena di morte incondizionatamente) pensassero gli altri, i professionisti, a me spettava capire, capirli…»

Ma capire è difficile, a volte non si vuole. Quando si trova da poco nel Lager un prigioniero gli chiede: tu hai il numero 174517, noi qui siamo diecimila, dove sono gli altri? Levi risponde ingenuamente «forse trasferiti in altri campi?»e il primo commenta: «non vuol capire».

E altrove Levi stesso ammette di non capire i tedeschi, e la loro follia, e di essere grato a chiunque sia in grado di spiegargliela. La domanda perché?Levi ha visto un ghiacciolo formato per il freddo fuori della finestra, lo stacca per succhiarlo e alleviare la sete, una guardia glielo strappa brutalmente. Levi chiede «perché?» L’altro risponde:«qui non c’è perché».

In un punto Levi, in quella che mi appare come la sua parola decisiva e conclusiva sull’argomento, afferma: «quanto è avvenuto non si può comprendere anzi non si deve comprendere perché comprendere è quasi giustificare. Comprendere un comportamento umano significa contenerlo, mettersi al suo posto, identificarsi con lui».

È una frase che fa tornare in mente quella di un altro grande personaggio, come Lui prigioniero ad Auschwitz e suicida, Bruno Bettelheim: «non si può condannare ciò che si riesce a comprendere».Ma, continua Levi, «se comprendere è impossibile, conoscere è necessario perché ciò che è accaduto può tornare».

Un terzo punto. Levi dà sempre un’immagine bidimensionale di sé, chimico e scrittore, Daniele invece ne dipinge un ritratto multidimensionale, certo chimico e scrittore, ma anche traduttore, adattatore teatrale e televisivo, consulente editoriale, articolista, animatore culturale, e poi anche «lucidissimo osservatore dell’animo umano che non si stanca mai di leggere nel fondo delle cose»e dotato di grande capacità analitica, ossia in una parola sola unintellettuale. Daniele usa proprio questa parola, intellettuale. Intellettuale è chi lavora con le idee, chi svolge il duro lavoro del pensiero e si sforza di interpretare il mondo.

Anzi direi ancora di più. Scrive Daniele: «Non fosse abbastanza chiaro, è nel trapasso dall’esperienza personale alle considerazioni sulla realtà più in generale e nell’indagine su ciò che è più nascosto e subito non appare e addirittura non si vorrebbe proprio vedere, che sta la grandezza dello scrittore oltre la sua inequivocabile testimonianza sul Lager.

Ora trarre dall’esperienza particolare considerazioni generali, leggere nel fondo delle cose, indagare ciò che è più nascosto e non appare, chiedersi qual è il perché e il senso delle cose, cercare di rendere chiaro ciò che è oscuro, ma questo è fare filosofia!

Certo Levi non è un filosofo di professione e Daniele non usa mai in nessuna parte del suo libro la parola filosofo ma l’immagine che disegna è a mio parere proprio quella di un uomo che sa interpretare con grande saggezza filosofica, senza odio, le vicende tragiche della sua vita, e nel suo senso più alto, la sua vita, ha saputo davvero prenderle con filosofia. Fedele a un principio filosofico spinoziano: «Non piangere, né indignarsi, ma solo comprendere».

Naturalmente una filosofia non astratta, teorica, ma che nasce da una riflessione profonda sulla propria esperienza. E se accostiamo i racconti alle Operette morali, potremmo anche considerare le sue riflessioni sparse nelle molte note e nei tanti articoli, come una sorta di piccolo Zibaldone.

Ecco credo che il libro di Daniele si distingua, nel panorama della letteratura critica su Levi, perché emerge dal suo libro certamente l’immagine di un uomo totale ma di questa totalità risalta soprattutto il Levi pensatore, dotato di grande potenza teoretica, aspetto che non è stato posto in primo piano, per quanto mi risulta, da nessun altro critico. Anzi, semmai se ne è parlato per negarlo. Belpoliti per esempio lo dichiara esplicitamente: «Levi non è un pensatore». Invece il libro di Daniele ci ricorda che, accanto al Levi testimone e scrittore, c’è anche, forse soprattutto, un Levi pensatore, in senso latofilosofo, capace di lasciarci una riflessione intellettuale e morale altissima.

Ma, come ultimo punto, voglio arrivare alla fine del mio discorso su Levi dicendo qualcosa sulla fine della sua vita. Lui parla nella sua opera più volte del suicidio. Nega ci si possa suicidare nel Lager, perché il suicidio richiede di essere preparato pensandoci e il pensiero non è possibile nel Lager. Ammette di aver accarezzato l’idea, qualche volta, ma sempre fuori dal Lager. Poi però lo mette in atto davvero e su questo Daniele esprime una posizione chiara e molto rispettosa: non cerchiamo di capire o di dare spiegazioni saccenti a un atto del quale lo stesso Levi dichiara, parlando del suicidio in generale, che ammette una nebulosa di spiegazioni aggiungendo che per lo piùnon lo capisce nemmeno il suicida stesso.E allora Daniele quel suo ultimo gesto invita ad accoglierlo, accettarlo, rispettarlo, a non giudicarlo.

Forse Levi si è ricordato dei saggi greci, i quali dicevano che «dove vivere bene non si potesse, vivere male non si dovesse». O forse il suicidio è solo l’atto con cui ha scelto liberamente il proprio destino, che è quello di tutti, di diventare polvere, come polvere nei campi di sterminio diventarono, senza averlo scelto liberamente, sei milioni di persone. Levi ricorda che all’amica Giuliana Tedeschi, la quale in lager, vedendo un fuoco uscire dalla ciminiera del crematorio, aveva chiesto «cos’è quel fuoco?»le compagne anziane del campo risposero «siamo noi che bruciamo».

Carole Angier, massima biografa di Primo Levi, scrive che il fulcro delle sue depressioni, in una delle quali si trovava al momento della fine, era la sua incapacità di amare. Questo Daniele nega e osserva che Se non ora quando, il suo unico romanzo, è un grande romanzo d’amore. Ma probabilmente in tutti gli scritti di Levi, al di sotto della loro equilibrata, ordinata misura, si può sempre avvertire una grande sensibilità piena d’amore.

E forse non c’è modo migliore di concludere questo mio discorso che ricordare le belle parole di Francisco de Quevedo con le quali Daniele conclude il suo libro: «polvere sarai, ma polvere innamorata».