DAILY LA PAROLA

Sfinito

Sfinito può essere il participio passato di un verbo intransitivo quale sfinire. Può significare stanco, indebolito, spossato, affaticato e via via lungo la strada che porta alla prostrazione completa di corpo e mente. Il vocabolario – uno qualsiasi perché quando non ce la fai più prendi il primo che ti capita – si rifugia nella solita formuletta buona per tutte le stagioni: «Ridotto all’estremo delle forze, svuotato di ogni energia, esausto», ma non la dice tutta.

Non dice infatti che essere sfiniti spesso è più uno stato mentale che fisico. Che è un verbo multisensoriale. Che allega a sé stesso sempre un’immagine. Quest’ultima naturalmente può variare a seconda del soggetto, a seconda delle esperienze personali, a seconda dello stato dell’umore. Può differenziarsi per conoscenze di vita, per censo, per gusti culturali e forse – o forse no –per quelli musicali (non si dice forse essere sfiniti dalla musica?) ma la mia sfinitezza, il mio intimo concetto di sfinito, si associa sempre a una poltrona. Una poltrona di pelle che mio padre acquistò molti anni fa con un baratto. La mise nel salotto. Nell’angolo di una parete. Li mi rifugiavo quando studiavo, quando volevo starmene in pace, pure quando venivo rimproverato.

È dunque lì che mi porta la spossatezza mentale di questi giorni. Lì, in quei pomeriggi silenziosi, con il sole che filtrava tra le persiane, il color pesca delle pareti, i merli che cantavano tra i tigli, i libri della Selezione del Reader’s digest che il mio amatissimo e indimenticato genitore acquistava ratealmente. È insomma il sapore buono delle cose buone o, per dirla alla Guido Gozzano “Le buone cose di pessimo gusto”? Chissà.

Quel tempo, quella stanza, quella casa ora non mi appartengono più. Ma la sfinitezza sì. Anzi si è aggravata. Vorrei dunque buttarmi su quella poltrona, chiudere la porta, serrare la finestra e non sentire più il chiacchiericcio insopportabile del mio/nostro ultimo anno: il Capitano, il Capitone, Salvini, Di Maio, Conte, lo spread, i bund, i Bot, i mini bot, la crisi, l’emergenza qui e l’emergenza là…. Alzo le mani. Mi arrendo. Chiedo pietà. Possibile che il mondo, la gente che lo abita, gli uomini e le donne che compongono questa bizzarra società italiana – e forse anche europea – non abbiano un sentimento di spossatezza? Possibile che non dicano mai: «Ma cosa abbiamo combinato il 4 marzo 2018?».

Si dice che una strategia narrativa vincente debba essere ricca di descrizioni multisensoriali. Deve cioè evocare emozioni ed esperienze in modo che le parole lette e/o ascoltate, richiamino immagini e situazioni positive, grazie al circuito di comunicazione tra l’immaginazione e l’immaginario. Se è così chiedo anche a voi di collegare il senso di sfinitezza che provate a un qualche vostro oggetto rifugio. Chessò… una cantina, la stanza da letto, una tenda o, come faceva un vecchio amico, la sua motocicletta che lanciava a tutta velocità per non dover rattristarsi oltre il dovuto quando prendeva un brutto voto a scuola. Per parte mia mi impegnerò – forse – a scrivere un racconto dal titolo: “La poltrona di pelle”.

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