DAILY LA DATA

23 agosto 1942
La rivolta di Monteleone di Puglia

La rivolta delle donne di Monteleone di Puglia contro la guerra, per la quale furono arrestate e rimasero in carcere oltre un anno, per esser poi incredibilmente processate nel dopoguerra
Gruppo di monteleonesi, fra i quali numerose donne, coinvolte nella rivolta dell’agosto 1942

Era il 23 agosto 1942, 77 anni fa. «Abbasso la guerra! Ridateci i nostri figli! Ridateci i nostri martiri!», urlavano centinaia di donne a Monteleone di Puglia, piccole paese abbarbicato a 842 metri di altitudine sul Subappennino dauno, a metà strada tra Avellino e Foggia. Urla che echeggiarono nel periodo peggiore della dittatura fascista, in piena Seconda Guerra Mondiale, cosicché furono soffocate, censurate e dimenticate. Oggi a Monteleone (Mundëljónë nel dialetto dauno-irpino), uno dei più piccoli Comuni del Sud Est italiano, vivono 1.020 persone, nel 1942 erano circa 5 mila.

Tuttavia pochi sanno (persino tra gli storici) che lassù s’è consumato quell’episodio che fa onore alla storia della nostra democrazia: fu la prima rivolta popolare contro il regime di Benito Mussolini, soffocata con centinaia di arresti e la minaccia, per fortuna rientrata, di una deportazione di massa. Non solo. Seguì un processo che incredibilmente – nonostante la fine del fascismo, della guerra e della monarchia – terminò con un proscioglimento ben otto anni dopo, nel 1950, in era repubblicana.

Ne ha scritto per la prima volta nel 2004 Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la Storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (Ipsaic), autore del volume Donne contro la guerra. La rivolta di Monteleone di Puglia (23 agosto 1942), edito da Edizioni dal Sud e riproposto con un’edizione aggiornata nel 2016. Sempre nel 2004 il giornalista del Tgr Puglia (Rai) Costantino Foschini ha presentato un documentario dedicato all’evento, in occasione della prima commemorazione.

L’opera di Leuzzi, scritta soprattutto sulla base di atti processuali dell’epoca trovati nell’Archivio di Stato di Bari, ha avuto il merito di riaccendere i riflettori su un episodio che contribuisce a riscrivere la storia del ruolo effettivo dal Mezzogiorno nell’opposizione al fascismo. «Anch’io ne sapevo poco – disse nel 2004 il sindaco Giovanni Campese, in occasione della prima commemorazione – poi mi capitò di leggere un libro e altri appunti scritti dall’allora parroco del paese, don Rocco Paglia. Così decisi di mettermi in contatto con l’Ipsaic». Il risultato è in quel prezioso volumetto: «La massiccia sottrazione di uomini validi, inviati sui diversi fronti di guerra – scrive Leuzzi – rendeva ancor più dura la realtà quotidiana delle famiglie rurali, ridotte alla miseria e alla fame. A Monteleone diverse donne nel corso di manifestazioni religiose agitavano drappi bianchi o gridavano: “Abbasso la guerra, ridateci i nostri figli, ridateci i nostri mariti”». Poi: «Le notizie relative allo stato di malessere che serpeggiava in Puglia e nel Mezzogiorno vennero diffuse da Radio Londra che sottolineò la latente avversione alla guerra e al regime da parte degli italiani».

Così «a Monteleone di Puglia la collera popolare esplose nella prima mattinata del 23 agosto 1942: in conseguenza, come riferiscono alcuni testimoni, della decisione del comandante della stazione dei carabinieri di sequestrare alcune pignatte di granturco ad alcune donne che erano in fila davanti ad un forno del paese. Subito dopo le donne, che erano aumentate di numero, affrontarono il podestà, proprietario della farmacia, gridando: “Vogliamo il pane, vogliamo sfarinare”». La gente – donne, anziani e bambini – si radunò sotto la caserma dell’Arma; i militari spararono, ferendo alcune persone.

Leuzzi ricorda: «A Monteleone si recò personalmente il prefetto Dolfin (che in seguito aderì alla Repubblica di Salò, ndr) alla testa di un gran numero di carabinieri… Sottoposero l’intero paese ad un gigantesco rastrellamento, casa per casa, fermando e interrogando centinaia di monteleonesi. Alla fine… le autorità fasciste disposero l’arresto di novantasei persone », compresi molti minorenni sotto i diciotto anni. Finirono nelle carceri di Lucera, Bovino, San Severo e d’altre città della Capitanata.

Il 3 settembre 1943, malgrado Mussolini fosse già stato destituito e arrestato nel luglio precedente, il sostituto procuratore generale del Re rinviò a giudizio novantuno imputati e chiese l’arresto di altri quindici cittadini. Il magistrato, che pareva non essersi accorto della fine del fascismo e degli sviluppi della guerra, considerò la protesta contro le restrizioni alimentari «indice della volontà di sopraffare ad ogni costo i poteri della pubblica autorità e di sostituire alla legalità la licenza e l’arbitrio».

Molti arrestati rimasero in carcere per quattordici mesi. Furono liberati solo tra il 27 e 28 ottobre 1943, grazie alle avanguardie alleate: furono i soldati canadesi, prima di scontrarsi con le retroguardie tedesche attestate sulle alture daune, ad aprire le celle di Lucera. Non solo. Si fecero avanti due detenute canadesi, in galera – come prigioniere di guerra – con le donne di Monteleone, a chiedere ai compatrioti di liberarle.

Tutto finito? Neanche per idea. Il calvario dei 64 imputati “superstiti” proseguì nel Dopoguerra con il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’assise di Lucera e l’accusa di «devastazione anche mediante incendio e saccheggio». Il 9 maggio del 1950 i giudici dichiararono che non si sarebbe dovuto «procedere per i reati contestati perché estinti per amnistia». In quegli anni molte famiglie si trasferirono in Canada. Oggi una numerosa comunità di monteleonesi, circa ventimila considerando le ultime tre generazioni, vive a Toronto, nell’Ontario. Tra questi, l’ormai ex ministro canadese delle Risorse umane e dello Sviluppo professionale Joe Volpe, che nel 2004, quando era in carica, visitò Monteleone, contribuendo a ricordare quella storia poco nota.

La morale? «La rivolta di Monteleone sia pure per cinque o sei ore, tolse ogni potere alle autorità fasciste – disse nel 1950 l’avvocato Quintino Basso, difensore (a titolo gratuito) degli imputati, durante la sua requisitoria – Se lo stesso si fosse verificato in moltissimi comuni d’Italia, il fascismo non sarebbe caduto un anno dopo, ma sin da allora». Probabilmente l’avvocato Basso non aveva tutti i torti.