IL PERSONAGGIO

Artemisia Gentileschi, una doppia violenza che si perpetua nei secoli


8 luglio 1593. Nasce a Roma, Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio, pittore tardo-manierista di origine pisana, e Prudenzia di Ottavio Montioni, morta prematuramente nel 1605.

Artemisia, prima ancora di essere un’artista e una pittrice di grande talento di scuola caravaggesca, è un simbolo di lotta ed emancipazione, in un momento storico in cui le donne avevano ben poco spazio per esprimere carattere e attitudini. È anche la vittima di una violenza carnale, adoperata su di lei appena diciottenne da un amico del padre, il pittore Agostino Tassi, doppiamente violata nel primo processo per stupro della storia. Tant’è che proprio al nome di Artemisia sono dedicate anche associazioni che operano in difesa delle donne.

Primogenita di sei figli, venne avviata giovanissima alla pittura dal padre, con il quale collaborò sviluppando tecnica e capacità, aiutata da un innato e non comune talento, che lo stesso Orazio seppe guidare e valorizzare al massimo.

Il lavoro nella bottega paterna fu bruscamente interrotto nel 1612, a seguito del processo contro il Tassi, che stava lavorando insieme a Gentileschi alle decorazioni di Palazzo Pallavicini Rospigliosi, a Roma. Furono la stessa Artemisia e la famiglia a volere il processo per la violenza commessa diverso tempo prima. L’uomo, infatti, si era invaghito della ragazza e aveva tentato di sedurla senza successo. All’ennesimo rifiuto, approfittò dell’assenza di Orazio per violentare Artemisia, che, durante il processo, raccontò con lucidità e fermezza quei momenti drammatici.
Lo stupro, la perdita della verginità, la successiva violenza psicologica adoperata da Tassi, che, prima del processo, propose un matrimonio “riparatore” e continuò a frequentare la ragazza finché lei non scoprì che era già sposato, influenzò drammaticamente la vita e l’iter artistico di Artemisia.

Animata dalla vergogna e dal rimorso, preda di una inquietudine creativa, la pitturessa o la pittora, come veniva chiamata, traspose nelle sue tele più famose le conseguenze del dramma che aveva vissuto. Le sue donne – Ester, Giuditta, Betsabea – sono eroine spinte dal desiderio di vendetta, che non si curano del pericolo, che trionfano sul male e sull’ingiustizia.

Non è difficile essere dalla parte di questa femminista ante litteram: dal processo Tassi uscì indenne, mentre la giovane artista e la sua famiglia subirono un linciaggio morale pesantissimo, cui si aggiunse, per Artemisia, la crudezza fisica dei metodi inquisitori del tribunale, che la costrinse a subìre diverse e cruente visite ginecologiche. Dagli atti del processo, di cui è rimasta documentazione fedelmente ricostruita e riportata in numerosi testi dedicati alla storia della Gentileschi, si sa che la donna accettò di testimoniare sotto tortura e di provare la verginità precedente allo stupro, sottoponendosi alla sibilla, un terribile supplizio riservato ai pittori, che consiste nel legare le dita delle mani con funi sottili fino a farle sanguinare.

Poco meno di 400 anni dopo il processo a Tassi, nel 1979, la Rai mandò in onda un documentario, Processo per stupro, che il difensore di parte civile Tina Lagostena Bassi, in una intervista rilasciata nel 2007, non esitò a definire sconvolgente: dimostrava, infatti, come i difensori degli imputati per stupro fossero altrettanto violenti nei confronti delle vittime.

Esattamente come il tribunale romano che nel 1612 aveva trasformato Artemisia da vittima a colpevole, anche in quel caso – e purtroppo anche in molti altri – i difensori agirono insistendo sui dettagli della violenza e sulla vita privata delle vittime per screditarle e accusarle di aver provocato la violenza stessa con atteggiamenti sconvenienti.

Sarebbe auspicabile immaginare che qualcosa, oggi, è cambiato. Invece, nel 2016, è uscito un libro di Pietrangelo Buttafuoco, dal titolo La notte tu mi fai impazzire. Gesta erotiche di Agostino Tassi, dove le gesta erotiche altro non sono che i pestaggi e gli stupri commessi dal pittore, compreso quello di Artemisia, elevati a chanson. Come ha detto Michela Murgia, stroncando i libro nella sua trasmissione Quante storie, «scegliere di chiamarle “erotiche” alimenta l’eterno e terribile equivoco che seduzione e violenza siano in qualche modo imparentate».