AMORE E DINTORNI CRITICA LIBRI VISIONI

Il calvario della morale e dell’io

Egon Schiele, “Die Umarmung Liebespaar”, 1917 © Belvedere-Wien

La morale comune vieta a un professore, cinquantenne, di avere una relazione con un’allieva, diciassettenne. Ma dove c’è un divieto c’è un desiderio. La morale vieta perché sa che in questa relazione si annida un desiderio. Il libro di Gianni Conti, Il professore, editrice Polistampa, 2007, porta alla luce il desiderio e la sua vicenda.

Questo desiderio appare nella vita del professor Tommaso Salutini in un momento di crisi. Cinquant’anni, la pancetta, qualche capello bianco, minacciano di far crollare l’intero edificio della sua esistenza. Cerco di dirlo con una mia fantasia, che non c’è nel libro e della quale quindi sono l’unico responsabile: tutta la vita del professore è stata quella di nutrire la bestia e adesso è in crisi perchè teme di non trovare più cibo da darle.

Il professore infatti non abita solo. Nella sua casa c’è anche la bestia. Un ospite molto caro al professore, al punto che si è fatto suo servo, e la bestia è diventata padrona di casa. Tutto quello che il professore fa, lo fa per servire la bestia, soddisfarla e nutrirla, affinché non muoia.

Quando il professore vuol conquistare gli studenti, cerca un piacere che è cibo per la bestia. Se tenta di screditare il supplente, i colleghi o il suo allievo migliore, lo fa per nutrire la bestia. Il godimento che prova se una donna lo considera il migliore dei suoi amanti è cibo da dare in pasto alla bestia. E quando dall’Aventino del suo appartamento, dopo aver lasciato la scuola, vorrebbe mancare tanto ai suoi studenti e che tutti andassero da lui, è sempre a servizio della bestia.

Oscar Kokoschka, Amanti con gatto, 1917

Qual è la bestia? Quale il suo nome? Io non la chiamerei narcisismo. Il vero narcisista non ha bisogno degli altri, basta a se stesso. Narciso si specchia da solo nello stagno, sicuro della sua bellezza. Si ammira, e questo lo soddisfa, non vede nessun altro, cosa gl’importa dell’adorazione di Eco, innamorata di lui?

Il professor Tommaso Salutini invece ha un bisogno insaziabile degli altri, per riceverne ammirazione e stima, per competere con loro e vincere, per non restare solo. Il professore ha fame di conferme, perché, a differenza di Narciso, è insicuro.

E allora questa bestia io la chiamerei potere. E il potere è una brutta bestia. Perché è tiranna e costringe il suo servo a fare una cosa sola nella vita: trovare cibo per lei. Così il servo, cioè il professor Salutini, vive una vita a una dimensione, che ha perduto non solo la libertà ma anche la molteplicità, perché fa sempre una cosa sola.

Se la bestia del potere è una così gran brutta bestia, però, perché il professore se la tiene in casa, e ci tiene tanto a lei, e ha così paura di perderla? Dichiara in un punto il professor Salutini: i segnali di stima, amicizia ed amore…avevano lo stesso scopo, trasmettermi fiducia in me stesso. Allora la funzione della bestia è quella di dare al professore fiducia in sé. Sì perché ogni volta che le porta del cibo la bestia lo ringrazia dicendo: tu sei potente. E per questo rappresenta un importante rimedio nei confronti di qualcosa di cui il professore ha molta paura, cioè una voce che ha dentro di sè e gli dice invece il contrario, gli dice tu sei impotente.

A cinquant’anni il professore teme di perdere la bestia, cioè questo rimedio, e di non poter più rispondere a quella voce, che adesso incalza e infierisce perchè aggiunge ora sei anche vecchio quindi a maggior ragione e ormai per sempre impotente. A soccorrerlo in questa crisi interviene il desiderio.

Il desiderio del professore si rivolge alle donne bambine. Non bambine, il professor Salutini non è un pedofilo. Ma nemmeno donne. Donne bambine, esseri che non sono più bambine e non sono ancora donne, cioè adolescenti. Il fascino dell’adolescenza è quello di chi contiene in sé tutte le potenzialità, ancora da sbocciare. Tuttavia le donne bambine desiderate dal professore non sono solo adolescenti, sono anche le sue allieve. Perché?

C’è un tema che si ripresenta con insistenza nel libro di Gianni Conti. Alessia tenta il suicidio perché è amata dal padre. Leonardo, l’allievo rivale, amato ed odiato, tenta, seppure timidamente, di rubare al padre la nuova donna, cioè la sostituta della madre. A proposito delle fantasie erotiche sulle sue allieve, il professore dice di sentirsi come uno scultore che crea la sua opera, e il rapporto dello scultore con la sua opera è un rapporto padre figlia. Così il professore è, per età, per autorità, per la sua funzione, figura di padre, come l’allieva è figura di figlia. E allora il desiderio si rivolge alle allieve perché è in fondo un desiderio edipico. La morale avversa così tanto questa relazione perché sa che essenzialmente essa è un incesto. Certo non lo è realmente. A chi lo accusasse di questo il professore potrebbe pur sempre rispondere “ma io non sono suo padre”. Tuttavia lo è simbolicamente. Proprio perché il ruolo del professore lo rende simbolo di padre, e quello dell’allieva ne fa un simbolo di figlia. Così il professore agisce come un padre geloso della figlia, che, quando lei trova un ragazzo, si sente scalzato dal trono e cerca di riconquistarlo.

È evidente dunque perché il desiderio compaia proprio nel momento di crisi, perché promette di portare nuovo cibo per la bestia la quale rassicura dicendo: se tu conquisti un’allieva non sei vecchio e impotente, sei ancora giovane e potente, più potente dei giovani perché vinci la loro concorrenza.

E tuttavia occorre chiedersi perché questa rassicurazione prenda proprio la forma del desiderio delle allieve, cioè del desiderio edipico. Evidentemente il professore non è fuori dall’Edipo ma c’è dentro. E qui il discorso chiama in causa una figura apparentemente marginale nel libro, ma in realtà decisiva, che non appare quasi da nessuna parte perché in realtà è un po’ dappertutto. Questa figura è la madre. Un fantasma si aggira nel libro, il fantasma della madre. Il professore non si impegna mai con nessuna donna, come don Giovanni, evidentemente perché è già impegnato, e impegnarsi con chiunque altra sarebbe tradire. Sarebbe tradire la madre. Il professore non lo sa ma è legato non alla madre, che è morta, ma all’immagine che ne ha, cioè al suo fantasma della madre, che è ben vivo. Il padre edipico riproduce con la figlia la relazione edipica che ha con la madre.

Ecco allora la radice di quel senso di impotenza che rende così indispensabile tenere in casa la bestia. Una madre che lega frena, e perciò castra, impedisce di essere indipendente, cioè rende impotente. Un figlio ancora legato al cordone ombelicale con la madre non è ancora diventato un io distinto dal tu della madre, è un figlio che non è ancora nato. È nato materialmente ma non è ancora nato psicologicamente.

E allora il vero motore delle azioni del professore, tutte rivolte a sfamare la bestia, è un’angoscia di fondo, dalla quale la bestia deve proteggere. Il libro è a un primo livello piacevole e divertente a leggersi, ma a un secondo livello è un libro angosciante. Il professore è dominato dall’angoscia. Questo è il tema del professore, il filo della sua vita che è in fondo l’angoscia di non esser nato, perché non è ancora nato un io indipendente dalla bestia, ed è quindi il desiderio ma insieme anche la paura di nascere.

Però non è tutto qui. E adesso veniamo all’aspetto principale, al tocco geniale del libro. Il professore tiene un diario. Anzi scrive due diari.

Il primo è un diario tradizionale, dove si registrano gli avvenimenti del giorno. Ma il secondo è un diario diverso, col quale il professore riprende il primo diario, ma lo cambia, lo espande e ne fa il punto di partenza per inventare dei racconti, facendo un’operazione di creatività e di letteratura. Al punto che il lettore non può sapere quale delle vicende raccontate sia veramente accaduta. Al limite può darsi anche che, di tutto quello che è raccontato nel libro, al professor Salutini non sia accaduto nulla, e sia tutta invenzione della sua fantasia. In questo modo il professore inserisce il secondo diario nel primo, sicché non è più possibile distinguere l’uno dall’altro, secondo una tecnica narrativa originale e di grande interesse, definita dallo stesso Gianni, con espressione suggestiva, diario nel diario. La quale tecnica conferisce al libro una struttura composta da due livelli di finzione. C’è prima la finzione dello scrittore, che inventa un personaggio di fantasia, il professor Salutini, e c’è poi la finzione del personaggio, che inventa storie di fantasia in modo tale che realtà e finzione diventano per il lettore inestricabili. Ma quello che più conta, e qua veniamo davvero all’aspetto decisivo del libro, è che il professore, con il secondo diario, siano vere o inventate le sue storie, elabora i temi centrali della sua vita, li fa uscire alla luce, ne fa oggetto di riflessione e ne prende coscienza, spinto da una volontà di confessione. Il senso profondo della confessione è quello di dire la verità a se stessi. E lo scopo del secondo diario è appunto quello di fare un’operazione di verità. Quando il professore dice che i suoi alunni sono stati ingannati da lui, schiacciati, e che ha tenuto schiave, unico padrone, intere generazioni di studenti, si confessa, lo dice a se stesso, ne prende coscienza. E però proprio grazie a questa elaborazione il professore ottiene un premio, un premio importante, il premio di una trasformazione. Mostrando quindi la potenza della scrittura. Una potenza trasformatrice.

Questa trasformazione è scandita da alcune tappe decisive, che s’incuneano col loro valore di cambiamento nell’architettura della personalità del professore, sicché, tra oscillazioni, tentennamenti, passi avanti e ritorni indietro, il nuovo della sua vita che avanza si mescola col vecchio che resiste. Ricorderò solo qualcuna di queste tappe.

La prima tappa è l’episodio decisivo del cimitero. Uno dei temi del professore è la paura della morte. Ma andare nel cimitero significa andare nella città dei morti, e quindi vedere e ricordare a se stessi la morte. Nel cimitero avviene qualcosa di importante, il professore scende nel regno dei morti, con una discesa agli inferi dove, con quello che è a mio parere l’episodio più toccante del libro, il professore vede la madre: sai, babbo, oggi ho visto la mamma. È un episodio importante perché il professore è legato alla madre, ma non lo sa. In realtà egli nella sua vita non vede la madre. Uno dei motivi della sua angoscia è proprio la cecità, il non vedere. Egli è legato alla mamma non alla luce del sole ma nella profondità degli inferi, però questo lui non lo sa, non lo vede. Adesso invece va negli inferi e vede la mamma. È questo l’inizio di un’uscita dalla cecità, la nascita del coraggio di cominciare a vedere e quindi a cambiare. È il sorgere di una presa di coscienza che testimonia una volontà di trasformazione e un potenziamento del desiderio di nascere e non di compiacere la bestia.

Altra tappa è quella di cambiare il colore della propria stanza, che significa cambiare i colori della propria stanza interna, cambiare i colori dell’anima. Prima c’era il giallo. Il giallo è il colore dell’oro, del potere. È un colore che attira l’attenzione, seducente. Quando una nave è in pericolo, per farsi notare, innalza bandiera gialla. Poi il professore decide di cambiare il giallo del potere e della seduzione con il bianco, il colore della purezza e dell’alba, dell’inizio di un nuovo giorno. E sopra il bianco aggiunge delle ancore, per attrezzare la nave della propria vita ad affrontare un cambiamento del tempo, per prepararla a sostenere le tempeste di una trasformazione.

Un’altra tappa è poi quella della liberazione, da parte del professore, della sua affettività, soprattutto verso Sara e verso Leonardo. Il potere congela l’affettività, il voler bene all’altro, perché nel potere l’altro non è nemmeno visto. Il potere fa rimanere nell’immanenza del sé. Ma con Sara e Leonardo il rapporto culmina in momenti di autentico contatto, di trascendenza del sé verso l’altro, di affettività. Quando Sara dice grazie al professore, non è un grazie formale ma vero. E qui il professore sperimenta una grande potenza, quella di riuscire, con un momento autentico di affettività, a cambiare la vita di Sara. Qui fa esperienza che la potenza non sta nel potere ma nell’affettività, e che questa si libera proprio quando si è fuori dal potere. Adesso non vuole sedurre l’allieva per compiacere la bestia, e nel momento vissuto con Sara, uno degli episodi più toccanti del libro, nasce finalmente un vero sentire. La tirannia della bestia è ormai apertamente contestata. Qui non è la bestia che dice voglio il cibo ma il professore che dice a Sara io ti voglio bene. Il che testimonia che è nato un io indipendente dalla bestia.

Ancora una tappa. All’editore che vuole modificare il libro per venderlo di più, per sedurre più lettori, adattandolo ai loro gusti, il professor Salutini ormai dice di no. E dicendo no all’editore dice di no alla bestia del potere. Ciò che conta non è sedurre, ma che il libro dica la verità dell’autore, i suoi problemi, le sue passioni, la verità della sua anima. Finché il professore è schiavo della bestia, non è nella verità ma nell’inganno, nell’autoinganno. Quando il professore si compiace perché la bestia gli dice sei potente, si sta ingannando. Ma adesso l’inganno vacilla di fronte a un’urgenza di verità. Di nuovo anche qui non è più la bestia che dice voglio cibo ma il professore che dice io voglio dire la verità. E ancora si conferma che un io indipendente è nato.

Tuttavia il libro del quale Salutini discute con l’editore non è altro che il diario, il diario nel diario del professore. Il quale quindi, lui che non ha mai voluto fare un figlio, attraverso il processo di elaborazione del suo diario, genera, partorisce quel figlio che è il suo libro, che è questo libro. Un libro che, se viene letto superficialmente, può apparire anche solo come una storia di sesso. E agli occhi di un moralista una relazione tra professore e allieva può sembrare anche una squallida storia di sesso. Ma, a chi è capace di vedere appena oltre, questo libro appare come il racconto di un’esperienza di elaborazione dei propri temi interni, il senso di impotenza, la seduzione, il bisogno di conferme, il potere, l’angoscia, e come il racconto di un’esperienza di trasformazione e di nascita, la nascita di un io indipendente e libero. Per questo il professore può dire alla fine che quell’anno memorabile è stato il più felice della sua vita. Dove il valore è dato soprattutto dalla capacità dello scrittore di entrare nell’anima del professore e di portarne alla luce i temi veramente vissuti, nei quali è esistenzialmente coinvolto, quelli che sono carne e sangue della sua vita. Temi universali, che appartengono a tutti noi, scagli la prima pietra chi pensa di esserne immune. Buona parte del valore del libro è data dalla sincerità con la quale il professor Salutini si racconta.

Questa lettura è confermata dal finale del libro, che, di nuovo, agli occhi di un moralista può apparire come il culmine della perversione, ed è invece il culmine di questo processo di liberazione e di generazione di cui ho parlato finora, oltre che la testimonianza significativa che una trasformazione è avvenuta. Un finale che nel libro è particolarmente importante, anche se sarà opportuno limitarsi a un commento sul suo significato, senza rivelare ai potenziali lettori quale esso sia, perché farlo sarebbe come svelare, a chi volesse leggere un giallo, chi fosse l’assassino. Mi limito quindi a osservare soltanto che è un finale catartico, dionisiaco, vitalistico, al di là del bene e del male, una potente affermazione di vita oltre ogni moralismo. Perché nel finale ciò che il professore fa non è voluto dalla bestia ma è veramente voluto da lui, che così si libera di bestia potere, e non solo, ma si libera anche di un’altra bestia.

In casa del professore infatti non c’è solo bestia potere, ce n’è anche un’altra, cioè bestia moralismo. In tutto il libro il professore combatte contro i tentacoli della morale comune, cioè del moralismo, che fa grande presa su di lui, perché c’è in lui anche una parte moralistica, raffigurata appunto da questa bestia. Bestia moralismo dice non devi sedurre le allieve, mentre bestia potere dice, al contrario, devi sedurre le allieve. Col risultato che il professore si trova nella condizione di essere, come Arlecchino, servitore di due padroni. Ma finisce sempre per fare ciò che vuole una bestia, o l’altra, e non fa mai quello che vuole davvero lui, non può farlo perché ancora non è nato in lui un io indipendente che vuole. Perciò quest’anno memorabile è stato per il professore il più felice della sua vita, perché è stato l’anno della propria generazione.

Difatti il finale è proprio la testimonianza che è avvenuta una trasformazione. Ciò che il professore fa non lo fa perché deve farlo per sedurre, come vuole bestia potere, né lo fa col senso di colpa, come pretende bestia moralismo, ma lo fa perché lui lo vuole fare. È nato un io, si è distinto dalla madre. E compie un’azione che ha un carattere simbolico liberatorio, purificatorio. Purificazione dalle bestie, cacciate fuori di casa. L’azione è adesso spontanea, libera, cioè parte da lui, e non è coatta, ossia un’azione che egli è costretto a compiere dalle bestie. E per quanto possa stupire, è questo proprio il principio di nascita di una morale.

Moralismo è l’atteggiamento di rispetto esteriore di una legge basata sul comando tu devi, il moralismo è eteronomia. È fare qualcosa perché una regola esterna mi dice che ha valore e che deve essere fatta. Morale invece è l’atteggiamento di rispetto interiore di una legge basata sull’affermazione io voglio. La morale è autonomia. Morale è fare qualcosa perché una regola interna mi dice che ha valore perché voglio farla. Il finale del libro, con il suo gesto simbolico, testimonia, insieme alla nascita di un io, anche la nascita di una morale, dell’atteggiamento di dare valore a qualcosa perché dall’interno noi la vogliamo.

Gianni Conti (1951-2016)

E come questo si è reso possibile per il professore? Finora, sotto il giudizio di bestia moralismo, il professore non accettava ciò che faceva. Da un lato era costretto a sedurre le allieve da bestia potere, dall’altro era costretto a condannare la seduzione delle allieve da bestia moralismo. Ma scrivere significa mettere davanti ai propri occhi le proprie azioni e le proprie bestie, riempirle d’affetto ed accettarle. E quando le proprie azioni e le proprie bestie sono accettate avviene la magia di una trasformazione. Per questo il rapporto sessuale che il professore ha con Alessia alla fine non è lo stesso rapporto che i due hanno all’inizio. Sono due rapporti diversi. Il primo è sotto il governo delle bestie, l’ultimo è espressione di una scelta autonoma, finalmente libera dal governo delle bestie che, una volta accettate, si sono trasformate. Come nelle fiabe, la bestia che viene accettata si trasforma in principe. Quando il professore dice: «le altre persone servivano solo a illuminare me stesso», sta mettendo davanti ai propri occhi bestia potere, la sta vedendo e accettando. Quando scrive del suo tentativo di suicidio, perché oppresso dal senso di colpa, sta mettendo davanti ai suoi occhi bestia moralismo, la sta vedendo e accettando. È questa accettazione, attraverso la potenza trasformatrice della scrittura, che libera e consente un gioioso sì. Non è un caso che il libro si concluda con un avverbio di affermazione. L’ultima parola di questo libro è, in sostanza, la parola sì.

Gianni Conti, Il professore, Polistampa, 2007, ISBN 9788859602705, pp. 192, € 11

Tags