DAILY LA PAROLA

Carruàli

In questi giorni di febbraio carruàli (carnevale) irrompe anche in Sicilia. La parola è sinonimo di carnaluàri, meno usato, ma simile alla locuzione italiana ”carne-levare” dalla quale derivano entrambe. Nel rispetto della tradizione si distinguono, per sontuosità e sfarzo, il carruàli di Acireale, di Sciacca e di Termini Imerese (paragonabili al celebre carnevale di Viareggio). Tutti gli anni alle sfilate dei carri allegorici assistono migliaia di persone. Nei soggetti, vere opere d’arte realizzate dai carristi con gigantesche carrualàte (carnevalate) di cartapesta, si rinnova la satira di costume, sociale e soprattutto politica, curata nei minimi particolari.
Dal palco centrale, il ”bravo presentatore” in paillettes e lustrini di frassichiana memoria, dopo gli stucchevoli ringraziamenti alle autorità, apre la festa; incita al divertimento collettivo col ritmo del tamburello a sonagli e canta: «Abballàti abballàti, fìmmini schetti (nubili) e maritàti …». Gli altoparlanti amplificano nelle piazze le parole e la travolgente tarantella contamina i bambini mascaràti (mascherati) da famosi personaggi delle favole che in gioiose scorribande lanciano coriandoli e stelle filanti.
Un Peppe Nappa adulto, smilzo e disincantato, scorazza tra la folla, si ferma all’improvviso, nasconde il gessetto tra le mani e quatto quatto striscia ‘na callà (un segno) dietro le spalle di qualcuno per poi scappare impunito… ‘ ‘a carruàli, ogni schézzu vali”. Il personaggio debuttò in teatro nel Sei-Settecento. Dal fisico longilineo, apparve sul palcoscenico a volto scoperto, senza trucco, col cappello di feltro e un costume di colore azzurro sproporzionato nelle misure. Con la nascita della Commedia dell’Arte fu riconosciuto ”maschera siciliana”, ma non ha avuto il successo di Pulcinella, di Arlecchino o di altre maschere regionali italiane. Ha colpito nell’immaginario popolare, per la sua stupidità, la pigrizia, il servilismo e per l’insaziabile golosità.
A proposito di golosità, ppi carruàli il menù sulle tavole imbandite è ricco e per il pranzo del Martedì Grasso non possono mancare, tra le altre pietanze, i maccarrùni o rraù (i maccheroni al ragù) di pasta fresca, fatti in casa e con pazienza tirati uno a uno dal ferretto. Usanza vuole, in alcune famiglie, che la cuoca, di nascosto, metta in pentola un maccarrùni più lungo. Il commensale che se lo troverà nel piatto, verrà eletto all’unanimità con brindisi di scherno ”Re carruàli’‘ e avrà come premio, ‘ncaddòzzu suvécchiu di sasìzza rrustùta (un rocchio in più di salsiccia alla brace).
A sera tarda del martedì, dopo la sfilata conclusiva, i squàtri mascaràti (i gruppi in maschera) stanchi e sudati si svestono, cessano le musiche, le luci sui carri si spengono e la magia dei fuochi d’artificio illumina la notte. In qualche città a chiusura della festa, da generazioni, gli uomini bruciano il carrualàto del luogo in un grande falò. Tra sacro e profano, si perpetuano riti propriziatori e scaramantici. L’ultima spisìdda (favilla)  dà inizio, col Mercoledì delle Ceneri, alla lunga Quaresima di digiuni e di penitenze, per chi ci crede, fino a Pasqua.