Il verbo dirìgere, da cui derivano parole come direttore o dirigente, soffre comprensibilmente di un’aura sgradevole, degna di biasimo perché per lo più evidenzia il significato di guidare stando a cassetta, in alto, cioè di reggere in una modalità assimilabile alla reggenza, qualcosa quindi di monarchico e addirittura autoritario.
Ciò nonostante la sua origine è tutta esplorativa, fatta di passi incerti e bivi dinanzi ai quali decidere dove svoltare, fare una scelta, assumersi la responsabilità del cammino che sarà intrapreso.
Composto in latino di di(s)-e regĕre, indica una meta verso la quale volgere il cammino, una “direzione” verso la quale orientare la marcia o la navigazione, e questa sua incerta, inquieta, quasi affannosa mobilità permane immutata nella forma riflessiva del verbo, dirigersi, ancorché meriterebbe fosse conservata anche nel caso in cui ci si mette, o più esattamente si viene messi, alla testa di un gruppo, e la responsabilità dell’ignota destinazione ricade su tutta quanta la comitiva che si mette in viaggio.
Insomma un fardello più che un privilegio, un onore più che un onore e in ogni caso il senso della ricerca, la cura verso quanti si affidano a quella guida.
Che sia il macchinista di una locomotiva o il comandante di un aeroplano, la bacchetta d’un’orchestra o il primo e l’ultimo a uscire dalla redazione di un giornale, o ancora il leader di una nazione, chi dirige ha un compito e non può tradirlo. La direzione della sua stessa vita dipende da questo impegno e non può che essere la stessa di quanti ad essa o ad esso si sono affidati.