Mettendo insieme le parole che in latino significavano “ancora” e “a lungo”, ovverosia etiam e diu, nella lingua italiana impiegata dagli albori fino all’inizio almeno del secolo scorso ci si è abbondantemente avvalsi del termine eziandìo per indicare “anche”, “altresì”, “persino”.
Citando l’uso che ne fecero Dante («eziandio per le cose significate») e Leopardi («saranno eziandio privati della speranza», l’autorevole vocabolario Treccani liquida così in poche righe la spiegazione e l’origine di questa parola che raramente la si legge ed ancor più raramente la si sente pronunciare.
Andando tuttavia a leggere cosa riporta il sito depositario dell’etimologia del nostro vocabolario (www.etimo.it) non solo si scopre che anche quell’etiamè un composto – unendo et e jam, ovvero “e” e “già” – ma anche che vi sono opinioni divergenti su quel diu. Non scorgendovi un particolare significato risolutivo, alcuni studiosi avrebbero ipotizzato che esso abbia più probabilmente a che fare con una semplice invocazione alle alte sfere celesti per dar più forza a quanto già afferma la prima parte del termine, a guisa di altre parole come avvegnadioché o magaridioché e similari impieghi del divino fatti in altre lingue o dialetti. Non proprio una bestemmia, insomma, anche se nominare invano il nome di dio è peccato e eziandio da dieci comandamenti.
Vada come va, ritrovar quel termine in pagine ingiallite fa piacere e eziandio non guasterebbe talvolta continuare a servirsene.