Un tempo risuonava soprattutto nei cortili delle scuole elementari, con tono di scherno per prendere in giro i lamentosi e i piagnucoloni. Nelle ultime settimane, a sorpresa, è diventato un trend topic sui social. #Gnegné, o anche nella versione gné gné, è come si può intuire parola onomatopeica che riproduce il lamento continuato e stucchevole di chi non trova argomenti migliori e si crogiola nel suo ruolo di (presunta) vittima.
La politica soprattutto, forse perché ormai orfana non dico di statisti ma anche di dignitosi amministratori del bene comune, è ormai tutto un gnegné. Il gnegné implica lo sgravio di responsabilità, lo sfogo querulo di chi pensa che la miglior difesa è l’attacco, che la colpa è degli altri e il destino è cinico e baro. E così è tutto un lamentarsi di tradimenti, alleanze scoppiate, mosse del cavallo più o meno riuscite.
Se siamo entrati nell’epoca del #gnegné c’è poco da stare allegri. Saggia è allora la linea dettata qualche anno fa da Papa Francesco, che appese sulla porta del proprio studio a Santa Marta un cartello con la scritta: “Vietato lamentarsi”. Visto da quale pulpito proviene, verrebbe voglia di aggiungerlo come undicesimo comandamento. Il cartello riportava la frase di uno psicologo siciliano, Salvo Noè (un nome biblico che sembra finto e invece è vero): «I trasgressori sono soggetti ad una sindrome da vittimismo con conseguente abbassamento del tono dell’umore e della capacità di risolvere i problemi. Smettila di lamentarti e agisci per cambiare in meglio la tua vita».
Insomma, chi gnegné non piglia pesci. Meglio darsi una mossa, tutti quanti.