DAILY LA PAROLA

Gusto

I sapori fondamentali sono l’amaro, l’acido, il salato e l’umami ai quali, secondo alcuni, ne andrebbero aggiunti altri due, associati al grasso e al fritto

Dal vocabolario Treccani si apprende che il gusto, parola di origine latina, è uno dei cinque sensi di cui siamo dotati, ovvero «il senso specifico esercitato attraverso gli organi gustativi (papille contenute nelle varie parti della cavità orale, nervo glossofaringeo, corda del timpano), per mezzo del quale viene riconosciuto e controllato il sapore delle sostanze introdotte nel cavo orale». È il gusto che ci permette di percepire il sapore di cibi e bevande. I sapori fondamentali sono l’amaro, l’acido, il salato e l’umami (termine di origine giapponese per indicare il sapore di glutammato), ai quali, secondo alcuni, ne andrebbero aggiunti altri due, associati al grasso e al fritto.

Nei secoli il gusto ha subito grandi trasformazioni, il progredire dei trasporti e il conseguente diffondersi degli scambi commerciali ha arricchito le dispense e le tavole di nuovi alimenti, così come le migrazioni da un continente all’altro sono state artefici di contaminazione tra abitudini e sapori diversi.

Negli ultimi anni il gusto sembra aver surclassato in importanza gli altri sensi, basti pensare al proliferare di trasmissioni televisive, blog  e pubblicazioni, in cui, di volta in volta, chef più o meno stellati, personaggi del mondo dello spettacolo, cuochi dilettanti, si sfidano ai fornelli o ci propinano un’infinità di lezioni di cucina.

Il gusto non è determinato solo dallo specifico senso di cui siamo dotati ma subisce influenze esterne, ambientali e psicologiche. Andrea Camilleri ben le esemplificava scrivendo: «Se mentre mangi con gusto non hai allato a tia una pirsona che mangia con pari gusto allora il piaciri del mangiare è come offuscato, diminuito».

La parola gusto del resto non è associata solo alla percezione dei sapori ma, come enunciato ancora nel vocabolario Treccani, viene ampiamente utilizzata in senso figurato, soprattutto nelle due accezioni di «modo personale e soggettivo di vedere, giudicare e apprezzare le cose«, o di «capacità di intendere, riconoscere e apprezzare il bello».

Fu durante il Rinascimento che la parola gusto  cominciò ad essere usata in senso figurato per indicare la capacità di valutare la bellezza, associando l’avere o non avere “buon gusto” prima all’estetica e successivamente al  sapersi comportare in società, al “vivere bene”.

Ma il buono o cattivo gusto sono dunque universali? Tutt’altro!

Così come in cucina, anche in senso figurato il gusto si è andato trasformando nei secoli e cambia alle differenti latitudini. Alimentazione, modi di vestire, di pensare e vedere il mondo, rispondono a “gusti” diversi a seconda della storia, del bagaglio culturale personale e della società in cui siamo cresciuti.

Qualcuno, specie se artista, può essere particolarmente esigente in fatto di gusto, persino nelle situazioni più impensabili, come dimostra la frase che avrebbe pronunciato Oscar Wilde in punto di morte, fissando la parete della sua camera d’albergo: «O se ne va quella carta da parati o me ne vado io!».

Altri, ahimé, a noi contemporanei, traggono gusto in attività non proprio edificanti. Esemplificativa, in questo caso, l’affermazione di Donald Trump: «Non stipulo accordi per i soldi. Ne ho già abbastanza, molti di più di quanto possano servirmi. Lo faccio solo per il gusto di farlo».

Che dire? Purtroppo, come recita un famoso proverbio, ognuno ha i suoi gusti.

 

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