Hangover è il post sbronza, la tremenda sensazione di malessere, fastidiosa e persistente che almeno una volta nella vita a tutti, tranne gli astemi, è capitato di provare: mal di testa feroce, nausea, occhi cerchiati, debolezza, sonno, confusione mentale, accompagnati da un aspetto orribile che nessun trucco o intensi lavaggi del viso con acqua gelata riescono a cancellare.
Si dice «essere in hangover» dopo aver passato una notte brava a suon di grappini, o qualunque altro alcolico di più o meno alta gradazione, oppure anche dopo aver fatto uso di droghe (anche se l’hangover non c’entra niente con l’astinenza). Ma c’è anche un nome scientifico per descrivere questo stato: veisalgia, dal norvegese kveis (disagio post-dissolutezza) e il greco algia (dolore). Così la medicina ufficializza il post sbronza come malattia, che in quanto tale va curata con i farmaci e chissà che un giorno aver alzato il gomito diventi anche causa (giustificata e certificata) di assenza dal lavoro.
L’origine della parola hangover è assai più curiosa. Sembra, infatti, che si chiamasse così un servizio offerto ai cittadini nelle più importanti metropoli eropee e americane dell’Ottocento. Era una stanza non riscaldata lungo la quale venivano tese delle corde, che restavano sospese a mezz’aria. Su queste funi ben tirate gli avventori potevano appoggiarsi o appendersi (in inglese to hang over, da cui deriva la parola) come preferivano e trascorrere così la nottata, alla modica cifra di 2 centesimi. Poteva capitare che qualcuno durante la notte morisse di freddo poiché queste stanze non erano riscaldate, ma il rischio di dormire per strada o sul pavimento era infinitamente superiore, per cui appoggiarsi alle corde era ritenuto più sicuro.
Di queste strane stanze-dormitorio senza letti né alcun genere di conforto ci sono testimonianze nella letteratura del periodo, in particolare il romanzo La pelle di zigrino di Honoré de Balzac, pubblicato nel 1831, e il primo libro di George Orwell, Senza un soldo a Parigi e Londra, uscito però un secolo dopo, nel 1933.
Scriveva Orwell: «At the Twopenny Hangover, the lodgers sit in a row on a bench; there is a rope in front of them, and they lean on this as though leaning over a fence. A man, humorously called the valet, cuts the rope at five in the morning. I have never been there myself, but Bozo had been there often. I asked him whether anyone could possibly sleep in such an attitude, and he said that it was more comfortable than it sounded — at any rate, better than bare floor».
A questo punto c’è solo da immaginare il collegamento tra il dormire hanged (o hung) over, appesi alle corde, e il post sbronza: certamente chi passava una nottata in un hangover, il giorno dopo non poteva che avere mal di testa, stanchezza, sonno, nausea e un aspetto orribile.