Felice esempio di musicista scampato all’insegnamento universitario e a un ruolo stabile di orchestrale, Gazich ha lanciato l’anima ed il suo violino in una ricerca diversa: quella che unisce mondi, tradizioni e memorie. Bresciano di nascita, ma appartenente ad una famiglia che proveniva da Est (come ha raccontato nell’album Una storia di mare e di sangue), dopo numerose collaborazioni con artisti italiani, si è fatto apprezzare soprattutto all’estero, con significativi tour negli Stati Uniti e in Europa a partire dagli anni Novanta; importanti le collaborazioni con Michelle Shocked, Mary Gauthier, Eric Andersen e Mark Olson. Al suo attivo, anche la composizione di musiche di scena per spettacoli teatrali: Il sogno di fuoco (1998), con il Piccolo Teatro di Milano /Teatro d’Europa; Elogio della Follia (2001); Un Cantico (2007). Ha inoltre lavorato alla colonna sonora del film Le ragioni dell’aragosta (2007) di Sabina Guzzanti.
Nel 2008 si concretizza un progetto a lungo accarezzato: Michele e Alice fondano un’etichetta indipendente, la FonoBisanzio. Dieci anni di un successo, di nicchia sì, ma decretato da un pubblico via via crescente. Il disco del gruppo Sàmbene Sentieri partigiani – Tra Marche e memoria (Gazich l’ha prodotto e ha collaborato ai testi) ha appena vinto il Premio Nazionale “Renato Benedetto Fabrizi” dell’ANPI, assegnato ogni anno a coloro che, nell’ambito della propria attività, abbiano trattato i temi dell’antifascismo e della Resistenza: «Un album come quello dei Sàmbene (che in sardo, neanche a farlo apposta, significa “sangue”) mi è sembrato scandalosamente attuale e davvero necessario – commenta –. Un modo di fare, di essere libero di fare, di seguire il mio impulso civile ed artistico, senza nessun condizionamento… Quando ho avviato la FonoBisanzio, ed eravamo solo mia moglie ed io, ci pareva un miracolo aver pubblicato il primo album con La Nave dei Folli. Poi la discografia ufficiale è crollata, così il nostro progetto ha potuto crescere e far frutto. Del resto – la voce si fa ancora più pacata – “Resistenza” e “Guerra civile” sono da sempre nel mio lessico, personale e di scrittura. Sono termini legati alla cultura partigiana, ma purtroppo continuano ad avere un senso. Nella piazza della mia città, Piazza della Loggia a Brescia, il sangue (dopo lo scoppio della bomba nel 1974) è stato subito lavato via dai pompieri, per cancellare ogni prova e alterare la scena del crimine.Mentre oggi, se si va in un qualsiasi centro commerciale la domenica, si può assistere all’impiccagione dei poeti: niente libri di poesia, ma molti libri di cucina… abbiamo perso qualcosa di fondamentale. Intanto il mondo va a pezzi e, soprattutto, va in guerra». I prodotti della FonoBisanzio non hanno nulla di artigianale, né nell’immagine (foto d’autore, pregevole cura grafica, informazioni e traduzioni accurate) né nel suono: «Dall’inizio – spiega Michele – collaboro con Paolo Costola del Macwave Studios di Brescia, grande sound engineering e grande musicista. È una marcia in più, una sicurezza».
Dopo la pubblicazione, con la Nave dei Folli di una trilogia (Dieci canzoni di Michele Gazich, 2008; Dieci esercizi per volare, 2010; Il giorno che La Rosa fiorì, 2011), sempre nel 2011, l’artista registra in una Brescia agostana, deserta, L’imperdonabile, totalmente da solo, sovraincidendo voce e strumenti. È un’opera di svolta, scaturita da un momento di fragilità fisica di Michele, che scopre così un’altra voce per cantare i propri versi, un’altra forza, più profonda. Da quel momento in poi, non si ferma più. L’imperdonabile è un titolo poderoso che rimanda a Cristina Campo e alla sua visione lucida e fervente del mondo, quando chiama “imperdonabili” tutti quegli autori, come spiega Gazich «che hanno vissuto la loro esistenza ardendo interiormente nella ricerca della verità e della bellezza. Per me “maestri di vita”».
Da lì prende anche spunto il Concerto spirituale, portato in tour nel 2012 in Italia e in Europa: accanto al violino e alla viola, suonavano pianoforte, dulcimer, bouzouki, chitarre e violoncello, con l’apporto fondamentale di due polistrumentisti come Francesca Rossi e Marco Lamberti. Sono seguiti il progetto Folkrock nel 2012 (riproposizione di grandi classici che Michele chiama “esercizi di ammirazione”, in collaborazione con Massimo Priviero), e il citato Una storia di mare e di sangue (2014) che racconta le peregrinazioni della famiglia Gazich (da Istanbul a Zara, da Amburgo a New York e ritorno): «Siamo noi i migranti. – spiega Michele – Dobbiamo guardare quello che sta succedendo con nuovi occhi, accettare il mutamento come una ricchezza, e capire che questo ci riguarda: siamo sempre noi, spinti dalla fame, dall’ambizione, dal sogno. Una grande soddisfazione – racconta – è stata portare il concerto in un Centro per l’accoglienza ai migranti a Lentella, nei pressi di Chieti, nel maggio del 2015». Del 2016 è La via del sale, opera matura e disincantata sulle rotte degli umani e su tanti luoghi che hanno perso il loro senso originario, ma stentano ad acquisirne uno diverso: «La pioggia lava morti / Mele, telefoni, finestre / Macerie di città / maestose rovine del terziario», recita una delle canzoni.
Nel 2017 Michele Gazich partecipa a Venezia al Festival Internazionale “Incroci di civiltà” e, in seguito, viene scelto per il progetto di residenzialità artistica Waterlines (a cura di Fondazione di Venezia, Collegio Internazionale dell’Università Ca’ Foscari e di San Servolo S.r.l.). Per Gazich, abituato a frequenti viaggi negli Stati Uniti (dove collabora, suona e produce dischi con Mary Gauthier ed altri importanti musicisti), la pausa nell’isola di San Servolo costituisce un autentico corto circuito: «Ho vissuto lì per tutto il mese d’ottobre 2017, proprio in quell’isola che fu manicomio per oltre due secoli, dal 1725 al 1978. – racconta – Ogni giorno, ho trascorso la mattinata nell’archivio dell’ex struttura manicomiale, e il pomeriggio e la notte a scrivere».
Il frutto di quel periodo così intenso sta oggi per vedere la luce. S’intitola Temuto come grido, atteso come canto e narra per la prima volta (in termini precisi, ma trasposti in undici canzoni cristalline e dolenti) la storia degli ebrei deportati da San Servolo nel 1944: «Sempre in ottobre avvenne, per l’esattezza l’11. Nelle cartelle cliniche – spiega – ho letto quel termine burocratico, orribile, “ritirati”, che si utilizzava per gli ebrei strappati a San Servolo e mandati alle camere a gas. Ho guardato i loro visi, quando la foto era presente nella cartella, oppure l’ho ricostruita nel mio cuore, nel tentativo di ridare loro una dignità. Una storia sconosciuta ai più, che ho sentito importante far riemergere». L’album (realizzato con il supporto del Progetto Waterlines e dei suoi promotori, del Beit Venezia – Casa della Cultura Ebraica e dell’associazione culturale “Il Colore degli Angeli”) uscirà il 7 settembre e verrà presentato in anteprima il 2 nel Ghetto di Venezia, presso la Sala Montefiore della Comunità, alle 20.30, in occasione delle attività speciali che il Museo Ebraico di Venezia dedica alla XIX Giornata Europea della Cultura Ebraica (anche se la data italiana è spostata quest’anno al 14 ottobre). Il filo conduttore dell’iniziativa è lo Storytelling, la narrazione: sono previste – oltre al concerto-racconto di Michele – una mostra della fotografa Dina Goldstein, sul rapporto tra mito biblico e vita quotidiana, e le visite all’Antico Cimitero del Lido e al Giardino segreto della Scuola Spagnola. La performance di Gazich verrà replicata il 9 a Villa Hériot, sede dell’Iveser (Istituto Veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea). TESSERE, per gentile concessione dell’autore, può proporre ai suoi lettori una breve anteprima con l’incipit dell’album.
«Dato che sono trascorsi più di settant’anni dal 1944, quelle cartelle cliniche sono ora pubbliche e si potrebbero divulgare nomi, cognomi e fotografie. Tuttavia – aggiunge Michele e il sorriso gli si allarga agli occhi – ho pensato, per rispetto, che non fosse il caso. Rispetto per i congiunti e rispetto per le loro storie che desideravo diventassero anche nostre. Così ho scelto nomi diversi (Euridice, Debora, Anna, ma anche Alice, San Sebastiano, Torquemada per una figura di psichiatra spietato e delatore), per dare a quei volti un valore assoluto. Però, se a qualcuno interessano i casi specifici, in ogni nota ho riportato il numero della cartella».
L’album ha una veste grafica originale ed asciutta, con chiari rimandi all’espressionismo tedesco nelle xilografie di Alice Falcetti: incisioni simboliche a sostituire le foto delle persone ed una mappa dell’isola di San Servolo per la copertina. Già nell’esibizione per il Festival dei Matti, a maggio, Gazich aveva fatto sentire le melodie struggenti di Alice la bambina che ormai volava nel cielo, oltre le mura della contenzione, oltre l’incubo dei vagoni piombati. Ad un ascolto più completo, l’opera convince nel suo insieme, toccando punte di estrema raffinatezza. La tematica forte, cruda, è interpretata attraverso un utilizzo multiplo delle chiavi sonore, staccato tanto da un’eccessiva tipizzazione folclorica quanto da echi blues, collegabili alla tradizione statunitense. In Anna, te scrivo partecipa con voce e fisarmonica un grande della canzone popolare veneziana, Gualtiero Bertelli, a narrare la storia di un poveretto, prima illuso di guarigione e poi denunciato in quanto “israelita” e quindi “ritirato”. Significativo, nell’album, il brano Caminanti, nato dall’incontro con il pensiero del compositore Luigi Nono e con il motto che aveva fatto proprio “Caminantes / no hay caminos / hay que caminar” (Viandanti, non ci sono vie; c’è solo il cammino): «Il 7 ottobre dell’anno scorso, durante la mia residenza a San Servolo, ho visto la pagina del taccuino di Nono dove aveva appuntato questi versi; erano nello studio in Giudecca della figlia Serena ed ispiravano una mostra in cui sette pittori, compresa lei, ne declinavano , ciascuno a suo modo, il significato. Per me, è stata una folgorazione. – ammette Michele – Pensiamoci, ogni artista, ogni uomo è in cammino, anche se non sempre (anzi, quasi mai) conosce la meta. Quella sera, tornato nella “mia” isola, ho guardato diversamente una foto scattata a San Servolo negli anni di cui racconto: riprende i degenti che camminano nell’ora d’aria, ognuno indipendente dagli altri, ognuno nella propria direzione. Allora ho tradotto i versi cari a Nono in una specie di veneziano e i “caminantes” sono diventati i “caminanti”».
Accanto a Michele, anche per questa avventura di senso, che non è solo un “ragionar cantando” o la trascrizione fedele di eventi poco conosciuti e terribili, ma soprattutto opera artistica di grande autonomia, c’è ancora una volta Marco Lamberti, il “maestro dell’anima” come lo definisce Gazich, oltre ad un gruppo di ottimi musicisti (tra cui lo stesso Costola e Alberto Pavesi alle percussioni) con la partecipazione straordinaria di Rita Tekeyan, voce per “Maltamé”: «Questa è una storia a parte, – spiega Gazich – credevo di aver scritto tutte le canzoni per questo lavoro nell’ottobre 2017, ma mi sbagliavo. Ne mancava una, importante. È arrivata tra marzo ed aprile di quest’anno e l’ho intitolata “Maltamé” che, in giudeo-veneziano, la parlata degli ebrei di Venezia oggi quasi scomparsa, vuol dire “persona posseduta da forze negative, impure”. Volevo dare l’impressione della paura, dell’ineluttabilità degli eventi, del terrore di fronte alla ferocia nazifascista che i reclusi non potevano affrontare. Ho scelto di narrare il momento della deportazione da San Servolo proprio attraverso l’idioma che la violenza ignorante dei carnefici ha ucciso. Ho deciso di fare memoria coinvolgendo attivamente anche il significante, le parole. Certo, – conclude –non è stato facile. Se non ci fosse stato l’amico Shaul Bassi, docente a Ca ‘Foscari, (a cui la canzone è dedicata), non ne avrei avuto la forza. Invece, grazie alla sua fiducia e al fondamentale testo “La parlata degli ebrei di Venezia” di Umberto Fortis, mi ci sono buttato … ». Il risultato è commovente, un frammento di vita della Comunità ebraica che Gazich comprende nelle sue sfumature più intime, nel tono da filastrocca scaramantica che la cantante modula, quasi a consolare nel buio della notte. “Dio sopravvive nei dettagli”, recita un verso di “Guerra Civile”. Così come – nella libertà profonda della memoria, nella civiltà del ben operare – anche gli uomini.