La prima idea che viene in mente soffermandosi sulla parola résa è quella di un soldato che issa la bandiera bianca, chiede al nemico di non sparare e così ammette la propria sconfitta, dichiara di aver perso, si arrende.
Idea appropriata, perché la parola résa indica la capitolazione, la sconfitta, la deposizione delle armi, l’onore al nemico, il riconoscimento della supremazia dell’altro, ma ricordare che essa deriva dal participio passato del verbo rendere – reso –, stempera il disagio derivante dal significato di questa parola.
Che infatti può essere anche quello della restituzione di qualcosa avuto prima in consegna, appartenente ad altri e solo temporaneamente affidato a chi ora, con la resa, rende ciò che non è suo.
In questo senso la parola resa – più spesso al plurale le rese – si impiega per definire le copie di libri o giornali invenduti che, scalandole dai conteggi, la libreria o l’edicola devono restituire all’editore e per quest’ultimo la sopravalutazione, l’eccedenza, quanto ingombra solo il magazzino in attesa di esser mandato al macero.
Così, più genericamente, la parola è sinonimo di invenduto. Gli spedizionieri e quanti si occupano di trasporto di merci, tanto per terra quanto per mare, se ne servono con sfumature più specifiche.
C’è poi la celebre espressione «resa dei conti», quello che gli antichi chiamavano “redde rationem”: sta a indicare il rendiconto delle spese fatte per conto di altri e, in senso figurato, il rendere conto del proprio operato, perciò la resa dei conti è il momento in cui ci sarà il giudizio.
Non si deve però dimentica che la resa è anche l’utile economico. Si dice «la resa di una macchina» o di un altro prodotto per indicare la sua prestazione, cos’è capace di offrire, il suo rendimento. Tanto in chimica quanto nell’industria tessile la parola viene impiegata per indicare la quantità che rimane al termine di una serie di operazioni. La resa di una coltura – spiega la Treccani – è in agraria «il risultato di una relazione tra la produttività e la resistenza alle avversità ambientali, ossia tra la capacità di una pianta di utilizzare al massimo le disponibilità ambientali, e quindi di dare un prodotto notevole in condizioni favorevoli, e l’attitudine a svilupparsi anche in condizioni fisiche e biologiche poco favorevoli. Si esprime, in pratica, in quintali per ettaro, o anche in rapporto alla quantità della semente impiegata».
Per concludere: si lascia qualcosa anche quando si alzano le mani e si accetta che le cose non siano andate come si sarebbe voluto.