Ormai siamo abituati a vederceli sfrecciare sotto il naso nel traffico delle nostre metropoli. A cavallo di una bici o di un motorino, con i loro slalom spericolati tra pedoni, marciapiedi e cantieri con lavori in corso. Un cubo di cartone legato al sellino, con i nomi delle compagnie per cui lavorano e con la testa coperta solo da un caschetto che ben poco li protegge in caso di caduta. Sotto la pioggia battente come nell’afa soffocante. Di giorno e di notte. Hanno in media tra i 19 e i 36 anni, ma ci sono anche ultraquarantenni colpiti dalla maledizione di arrivare a fine mese. In maggioranza uomini, anche se negli ultimi mesi, il numero delle donne sta crescendo. È l’esercito dei rider, i fattorini che consegnano il cibo a domicilio. E il termine inglese (da to ride, cavalcare) suona quasi ironico, lontani come sono da qualsiasi easyrider di cinematografica memoria.
Molti sono studenti, ma c’è anche chi ha già un impiego e di notte va in bici per sbarcare il lunario. Sono lavoratori part-time, ultraprecari senza tutele, frutto dell’esplosione della gig economy. Il datore di lavoro è assolutamente invisibile. Non è il ristorante o la pizzeria che ha chiamato per la consegna. Il padrone, in questo caso è un’app, una piattaforma online di food delivery. Deliveroo, Glovo, Eats, Just Eat e Uber, sono solo alcune delle big corporation che grazie a questo esercito di milioni di lavoratori su due ruote, riescono a garantire in alcuni casi consegne 24 ore su 24. Al prezzo del massimo sfruttamento.
Tutto avviene tramite l’app e un pc. Da quando ci si candida fino a che si ottiene il lavoro. A volte tramite un colloquio telefonico, raramente tramite un operatore reale. Perché dietro le app dei giganti del food delivery c’è un sottobosco di lavoratori a cottimo, che mettono a rischio la propria incolumità per scalare la classifica stilata degli algoritmi che gestiscono turni e punteggi secondo criteri sconosciuti. La paga base oscilla tra i 5,40 e i 7 euro l’ora, in alcuni casi con un bonus di un euro a consegna. Nessuno è inquadrato come dipendente. Hanno degli orari e degli obblighi, ma non hanno ferie e non possono permettersi di ammalarsi. E naturalmente, più si corre, più si guadagna. E se la bici si rompe, il più delle volte, sono affari tuoi.
I riders di tutta Italia hanno deciso di fare rete con forme sindacali autogestite che prevedono l’uso massiccio dei social network. Da Bologna, dov’è nato il primo sindacato di categoria, arriva l’invito al boicottaggio delle consegne con la partecipazione dei consumatori. «Il boicottaggio è una proposta intelligente – spiega Lorenzo Righi di Riders Union Bologna. Noi chiediamo l’applicazione del contratto della logistica per tutti i lavoratori che consegnano il cibo a domicilio. Inquadramento al quinto livello, indennità di cassa, salario minimo su base oraria in riferimento ai contratti nazionali con incentivi legati alla consegna, la disconnessione dal sistema (ovvero licenziamento) solo per giusta causa. E l’esercizio dei diritti sindacali.
A giugno e a settembre si sono svolti i primi due scioperi nazionali, a Milano Torino, Bologna, Catania e altre città italiane. Una mobilitazione che si è unita ad altre due proteste internazionali: quella dei fattorini spagnoli di Glovo e degli inglesi di Deliveroo. Primo passo, si spera, verso la creazione di una rete internazionale di riders uniti contro lo sfruttamento globale.