DAILY LA PAROLA

Ùgghia

La ùgghia (ago) non rientra nell’elenco #parole da salvare del dizionario Zanichelli, ma guai a perderla; dopo, per trovarla, sarà “come cercarla in un pagliaio”. Scandita nell’espressione siciliana “ahi ahi, chi mugghiéri ca ‘ncapitài, ci ccattai a ùgghia cu filu, ma no l’ha vistu cuciri mai! (ahi ahi, che moglie che mi è capitata, le ho comprato l’ago con il filo, ma non l’ho vista cucire mai!)”, che allude non solo al comportamento della moglie, un tempo casalinga dedita alla famiglia e spesso derisa dal marito, ma in generale, all’operatività quotidiana anche degli uomini, quando per indolenza, rinviano qualche lavoro pur avendo gli arnesi per eseguirlo.

La ùgghia è una barretta esilissima di acciaio, appuntita da un lato e con un forellino ovale dall’altro che una volta infilata , viene spinta ccu ititàlu (con il ditale) nei tessuti e non solo; quella per la macchina da cucire, la punta e il foro lo ha solo da un lato, mentre quella per la siringa è forata al suo interno. Altri ùgghi (aghi) particolari , tipici dell’agopuntura cinese, sono realizzati con la zigrinatura da una parte, per agevolarne la manipolazione a fior di pelle, su alcune parti del corpo.

I ùgghi apparivano e tutt’ora appaiono tra le mani di molte donne nel relax a fine giornata. Per lavorare con i gomitoli di lana o di cotone, occorrono ùgghi differenti nei materiali e nello spessore, alcuni di plastica rigida o di legno per le maglie, altri ad uncino per le frange, altri ancora di metallo sottile, arcuato, per sferruzzare le calze. Le nonne trasmettevano saperi e conoscenze di quest’arte e qualcuna ppi ripizzàri (per rammendare), dopo estenuanti tentativi , rassegnata chiedeva aiuto ai presenti : «Cu ma inchi ‘sta ùgghia? Avi ‘u culu strittu e no viu! (Chi me lo riempie quest’ago? Ha la cruna stretta e non la vedo!)». Nell’attesa, raccontava per l’ennesima volta nella serata, quando in paese l’acqua in casa non c’era e molte ragazzine come lei andavano e tornavano ca quartàra (brocca) ‘ntesta, da funtana a ùgghia, così chiamata perché l’acqua, specie in estate, usciva dal rubinetto a filittu ‘i ùgghia (a filino d’ago).

Strumenti indispensabili nelle creazioni artigiane, ùgghi, ugghìtti e ugghiùni (aghi, aghetti, e agoni), hanno contribuito alla valorizzazione di molte attività, dall’alta moda negli atelier, ai laboratori autonomi di pellettieri e calzolai. Quest’ultimi, oltre alle scarpe, assemblavano chi ugghiòli (con le lesine) dal manico corto, i sacchi e gli otri di olona, utilizzati per il trasporto dell’uva e del mosto durante la vendemmia nei vigneti dell’Etna. Per accoppiarli sul basto dei muli, allungavano le cinghie, ripassandole ccu ugghiàti stritti (con gugliate strette) di spago grosso cerato intorno agli occhielli su di uno, dove agganciargli le tibie di capra, fissate sull’altro.
Negli anni Sessanta, don Roccu, ‘u pisciàru pa stràda (don Rocco, il pescivendolo ambulante) detto ‘u pizziddòtu, perché originario di Pozzillo, aveva modificato la sua Lambretta per legarle sul retro le cassette con i pesci e la stadera. Girava nei quartieri del paese e fermandosi agli incroci delle strada annunciava a squarciagola: “«Niscìti fìmmini, niscìti! Stammatina ci su ùgghi e ùgghitti ca bbàllunu! C’evi palàmmutu e masculìni...(Uscite donne, uscite! Stamane ci sono aguglie e costardelle che ballano! C’è palàmito e acciughe…)». L’eco risuonava di casa in casa e qualcuna usciva col piatto tra le mani. ‘U pizziddòtu, precursore del “chilometro zero”, portava a domicilio “argento vivo”, pescato la notte nel suo mare.