Sono i giorni di piena libertà che il regime fascista concesse ad Antonio Gramsci perché non si potesse dire che fosse morto in carcere: dal 21 al 27 aprile 1937. Soffriva del morbo di Pott, di arteriosclerosi, ipertensione, gotta, ebbe per ben due volte gravi crisi con allucinazioni e deliri. Ma la richiesta di libertà condizionata per gravi condizioni di salute avanzata dai familiari in base all’art. 176 del codice penale dell’epoca, sostenuta da un comitato costituitosi a Parigi, del quale fecero parte anche Romain Rolland e Henri Barbusse, fu accolta solo il 25 ottobre 1934 da Mussolini. Arrestato l’8 novembre 1926, condannato a 20 anni, 4 mesi e 6 giorni di reclusione per opposizione politica al regime fascista, fu trasferito il 19 luglio 1928 nel carcere di Turi, in provincia di Bari, con il numero di matricola 7047 e lì rimase fino al 19 novembre 1933 quando venne trasferito nell’infermeria del carcere di Civitavecchia. Il 7 dicembre 1933 gli venne concesso il trasferimento nella clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in camera e all’esterno. Solo il 24 agosto 1935 poté essere portato nella clinica “Quisisana” di Roma. Vi giunse in gravissime condizioni. All’alba del 27 aprile 1937 morì di emorragia cerebrale. Aveva 46 anni. Fu cremato, e il giorno seguente si svolsero i funerali, cui poterono partecipare solo il fratello Carlo e la cognata Tatiana: le ceneri, inumate nel cimitero del Verano, sono poi state portate nel Cimitero acattolico Campo Cestio di Roma.