ATTUALITÀ STORIE

Affare Lokheed: Leone getta la spugna

Il 15 giugno 1978, il presidente della Repubblica Giovanni Leone si dimette e lascia il Quirinale salutato da un picchetto della Marina militare. È l'epilogo dell'affare Lockheed, per cui era già stato condannato il ministro socialdemocratico Mario Tanassi e si era dimesso il suo collega Dc Luigi Gui
Leone e Andreotti

È la sera livida e piovosa del 15 giugno 1978: Giovanni Leone, insigne giurista, per otto anni presidente della Camera e, di quando in quando, alla testa di governi “balneari”, si dimette da capo dello Stato e abbandona il Quirinale salutato da un picchetto della Marina militare. È il momento culminante dell’affare Lockheed, che aveva già portato in galera il ministro socialdemocratico Mario Tanassi e costretto alle dimissioni il suo collega dc Luigi Gui. Che cosa fu quell’affare? Fu lo scandalo delle mazzette pagate dagli americani perché l’Italia acquistasse i grandi aerei da trasporto Hercules, gli (allora famosi) C 130. Momento culminante dell’affare, ma soprattutto la fine ingloriosa – appena sei mesi prima della fine di un mandato conquistato grazie agli storici contrasti tra Amintore Fanfani e Aldo Moro, “i due cavalli di razza” dello scudocrociato – di una carriera politica e professionale che solo da qualche tempo e con onestà intellettuale in parecchi rivalutano.

Come c’è entrato Leone in quello che ancora oggi rappresenta – per chi ha memoria storica – uno degli emblemi delle più scandalose gesta, non solo democristiane, che hanno macchiato e travolto la cosiddetta Prima Repubblica? Vero è che Leone è stato eletto a fatica, solo al 23° scrutinio, alla vigilia del Natale ’71, e con l’onta dei voti dell’Msi, contrattati per fronteggiare i contrasti interni alla Dc. Vero anche che il suo animo tutto napoletano è uscito talora allo scoperto nei modi meno ortodossi (il gesto delle corna agli studenti pisani) o più imbarazzanti: a New York, durante un ricevimento ufficiale, il presidente si è messo a cantare a squarciagola ’O Sole mio. Ma è pur vero che, a differenza di alcuni suoi predecessori – Saragat e soprattutto Gronchi – il sesto presidente della Repubblica non ha mai interferito nella politica estera del governo. E che, in fondo, in lui la Costituzione (come prima la gestione dei lavori della Camera) ha avuto un tutore quasi sempre corretto. Ma l’affare Lockheed tanto fa traboccare il vaso delle critiche, quanto spazza via gli apprezzamenti. In buona sostanza a Leone viene mosso un addebito ed elevato un sospetto, solo un sospetto. Tuttavia la moglie di Cesare…

L’addebito è quello degli stretti rapporti, della sostanziale familiarità con i fratelli Lefevbre, rappresentanti italiani della Lockheed. Possibile che Leone non sapesse dei loro traffici? Il sospetto è fondato su un appunto degli ufficiali pagatori venuti dall’America per foraggiare, tra gli altri, un misterioso uomo politico nascosto sotto il sopranome di “Antelope Cobbler”. Traduzione: “Ciabattino di antilopi”, che non significa niente. Ma significa tante cose se nell’appunto c’è un errore, e cioè se invece di “cobbler” la parola inglese giusta è “gobber”. Allora la frase avrebbe un senso preciso: “sbranatore di antilopi”, cioè proprio un bel leone, Leone appunto. Il quale, vista la delicatezza della situazione, verga una sorta di autodifesa non solo per l’affare Lockheed ma anche per sopravvenute voci su presunte irregolarità fiscali e immobiliari.

L’Hercules C-130 della Lokheed
foto Howard Blair/TSgt

Prima che sia reso noto (e ufficialmente non lo sarà mai), il messaggio viene spedito, per saggiarne l’opinione, a Botteghe Oscure: Enrico Berlinguer lo definisce impresentabile e comunque in contraddizione con l’esigenza montante di moralità della vita pubblica. Tramite Paolo Bufalini, che ha gestito e gestirà per lungo tempo le fasi più delicate di numerose crisi politiche e istituzionali, fa sapere al segretario della Dc, Benigno Zaccagnini, che per il bene comune è necessario e urgente che Piazza del Gesù spinga Leone alle dimissioni. Zac è d’accordo, solo Andreotti è contrario. Ma oramai è troppo tardi. Leone straccia quella bozza contestata, fa chiamare la Rai e registra per la televisione un più mesto messaggio agli italiani: poche e convulse parole per annunciare – il volto terreo, gli occhi vitrei – che lascia il Quirinale.

Tornato semplice parlamentare, ma senatore “di diritto a vita” come prevede la Costituzione per gli ex presidenti della Repubblica, Leone si iscrisse al gruppo misto e non a quello della Dc, in evidente polemica con il suo partito per il mancato appoggio al momento in cui aveva deciso di lasciare il Quirinale. Da allora sono passati tanti anni, Leone è scomparso.

Se non molti sanno o ricordano le sue dimissioni e i motivi che le dettarono, certamente sono ancora meno quelli che sanno o ricordano di lui una pagina di illuminante spessore morale e giuridico. Nei primi Anni Sessanta, nel fuoco delle polemiche suscitate dall’assoluzione dei quattro monaci-banditi di Mazzarino (scarcerati, dopo la prima sentenza, per avere agito “in stato di necessità”), un’unica voce si era levata dal mondo cattolico (e democristiano) per censurare quella vergogna e per condividere invece l’opinione che i frati dovessero essere condannati per omicidio, ricatti, associazione per delinquere, in combutta con i “laici” della banda, e non perché fossero loro vittime.
Fu la voce di Giovanni Leone, allora presidente della Camera, che si levò alta e forte per affermare l’eguaglianza di tutti i cittadini, anche saio-vestiti, di fronte alla legge. Fu polemica asperrima per quella severa, intransigente censura dell’incredibile assoluzione decisa in prima istanza dalla Corte d’assise di Messina, presieduta da un magistrato che era pure autorevole dirigente dell’Azione Cattolica. Dopo alterne vicende, una sentenza definitiva della Cassazione condannò i frati. Perché banditi.

P.S. In realtà ci fu un caso particolare di dimissioni dalla carica di presidente della Repubblica prima di quelle di Leone. Antonio Segni si dimise, con cinque anni di anticipo sulla scadenza naturale del mandato. Eletto nel 1962, due anni dopo venne colpito da una grave trombosi cerebrale che lo rese inabile all’incarico. Dopo Leone altri due presidenti si dimisero anticipatamente dalla carica: Sardo Pertini, nel 1985, pochi giorni prima della scadenza naturale del mandato, per consentire al suo successore (Francesco Cossiga) nel frattempo già eletto, di giurare e insediarsi; e lo stesso Cossiga che concluse la fase di “picconatore” lasciando polemicamente il Quirinale due mesi prima della scadenza.