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Calabria 2018, Camargue 1893: storie di ordinaria emigrazione

Un primo scenario lo abbiamo appena visto nel telegiornali

A San Ferdinando, in Calabria, un incendio divampa in una baracca uccidendo un migrante africano diciottenne, Suruwa Jaithe, originario del Gambia. In Italia con un permesso umanitario (quelli che il governo pentaleghista ha deciso di abolire), aveva acceso un piccolo fuoco per riscaldarsi dal freddo della notte.

Le baracche sono ad alcune centinaia di metri dalla tendopoli “ufficiale”, in cui vivono altri 800 migranti. Una situazione che ha determinato proteste e richieste di aiuto da parte dei migranti: sono quelli che ogni anno in questi mesi raggiungono la piana di Gioia Tauro per cercare lavoro nella raccolta di agrumi, gli stessi che troviamo nei nostri supermercati.

Nel gennaio 2018 un altro rogo aveva distrutto centinaia di baracche uccidendo Becky Moses, una nigeriana di 26 anni. Prima, un ragazzo nero era stato ucciso da un malavitoso italiano mentre cercava lamiere abbandonate per farsi una baracca. I drammi sono tanti. Già alcuni anni fa da una baraccopoli calabrese era partita una disperata rivolta degli sfruttati africani.

Idem in Puglia: nello scorso mese di agosto, durante due episodi accaduti a pochi giorni di distanza, 16 braccianti africani sono morti vicino a Foggia, mentre viaggiavano stipati a bordo di vecchi furgoni scassati. Andavano al lavoro nei campi o tornavano; tutti sfruttati nella raccolta di pomodori pugliesii (quelli a loro volta sempre disponibili nei nostri supermercati).

In Calabria  dietro ci sono i boss del caporalato e la ‘ndrangheta, così come in Puglia ci sono stati il caporalato illegale e le cosche locali, che – con la complicità di “vicecaporali” africani e imprenditori agricoli italiani – taglieggiano i migranti: pagati irregolarmente 3 euro l’ora per 10 ore, trascorse sotto il sole cocente di agosto o nel freddo tagliente di dicembre. Da oltre vent’anni si consuma questo dramma, mentre la legge anticaporalato non viene fatta rispettare. Secondo la Cei e i dati della Cgil, i braccianti stranieri che lavorano in forma “para-schiavistica” in Italia sono tra i 70 mila e i 100 mila.

Un secondo scenario è questo

Per sfuggire alla miseria, passano i confini tra Italia e Francia in tanti, spesso clandestinamente. E pur di lavorare accettano una paga assai più bassa rispetto a quella degli abitanti della zona, che disdegnano l’impiego, duro e mal retribuito. I quattro soldi servono per fare campare le famiglie lontane. Lavorano in condizioni penose. Alcuni “abitano” in capanni col tetto di frasche. Tantissimi dormono all’aperto. Chi vive nella zona li considera ladri e sporchi. La rabbia esplode con un pretesto non del tutto chiaro. Fatto sta che una mattina la gente del posto attacca i capanni che ospitano gli immigrati: inizia una gigantesca caccia allo straniero.

Le analogie

Immagine tratta da “L’Illustrazione Italiana”

L’ultimo è un ulteriore racconto dedicato a quello che succede oggi in tante zone d’Italia, da Sud a Nord? Macché. Sembra. È un’altra storia: risale al 1893. Però è anche la “stessa” storia. Diversi i protagonisti. Le vittime della caccia cominciata il 17 agosto di 125 anni fa furono gli italiani immigrati nella zona di Aigues-Mortes, cittadina della Camargue nel Sud della Francia. Erano lì per lavorare nelle saline.

Il bilancio finale dei morti tra gli operai italiani non è mai stato accertato: 9 secondo le stime ufficiali francesi. Il “Times” di Londra parlò di almeno 50 vittime. Secondo altre fonti arrivarono addirittura a un centinaio. Una rivolta xenofoba che pochi ricordano, raccontata tra l’altro in un bel libro di Enzo Barnabà: Morte agli italiani! Il massacro di Aigues-Mortes 1893 (Infinito, 2008).

Gli italiani, allora, erano chiamati dai francesi “Christos” o “Macaronis”. Erano emigranti stagionali, come quelli accampati oggi nel nostro Sud; arrivavano dal vicino Piemonte e da altre regioni. In Italia l’agricoltura era in crisi. I prezzi del cibo erano aumentati. In Piemonte, poi, i vigneti erano decimati da malattie come fillossera, iodio, peronospora. Il lavoro era scarso e pagato pochissimo. Non restava che emigrare.

Il ricercatore piemontese Alessandro Alemanno spiega che lavoravano «in un ambiente paludoso, dove sempre erano in agguato le febbri malariche… Da secoli l’estrazione del sale era occupazione riservata quasi esclusivamente agli ex galeotti, ma proprio nel 1893 la Compagnia delle saline aveva assoldato 600 italiani». Scrive lo storico francese Jean-Claude Hocquet: «Tutti questi operai lavoravano in condizioni penose, esposti tutto il giorno a un sole ardente, con gli occhi bruciati dal bagliore accecante dei cristalli di sale che scintillavano al sole, senza altra ombra dove riposare gli occhi che non fosse quella del cappello a larghe falde, coi corpi che gocciolavano di sudore, coperti di graffiature, scorticati dal canestro di vimini, mal protetti da una tela di sacco gettata sulla spalla, con le mani tagliate dai cristalli di sale, calzando zoccoli di legno guarniti di paglia».

Eppure il settimanale “Mémorial d’Aix” allora incitava all’odio (come nel nostro Paese fanno ora alcuni quotidiani): «Gli italiani cominciano ad esagerare con le loro pretese: presto ci tratteranno come un Paese conquistato». Il quotidiano“Le Jour” chiedeva di proteggere i francesi «da questa merce nociva, e peraltro adulterata, che si chiama operaio italiano».

 Le conclusioni

Leggendo queste ultime valutazioni giornalistiche, sembra di scorrere commenti concepiti oggi in Italia. Anche ad Aigues-Mortes certi amministratori pubblici e certi leader avevano fatto da sponda all’odio per raccogliere consensi. D’altra parte, la storia dell’emigrazione italiana è costellata da eventi tragici. È chiaro però che la barbarie è sempre dietro l’angolo e che il ruolo di vittime e carnefici è intercambiabile. Forse la storia non riesce davvero ad essere “maestra di vita”? Di certo, la ignorano per primi i politici nostrani che cavalcano la xenofobia. E l’ignoranza, assurta a forma di presuntuosa “cultura”, genera mostri.