L’idea era venuta a Gian Piero Brunetta con un suo saggio dal titolo sensazionale, pubblicato nel 1997 da Marsilio e più volte ristampato, Il viaggio dell’icononauta.
Icononauti, ossia navigatori dell’immagine, per quanti – nei secoli che hanno preceduto l’invenzione del cinema – sono riusciti a diffondere, con strumenti ottici, forme e rappresentazioni di mondi, fossero reali o immaginari. Uno spettacolo di magia luminosa, caravanserraglio di varia umanità, dai venditori ambulanti di stampe popolari ai lanternisti che giungevano dalla Savoia, dagli illustratori di Diorama ai piccoli impresari di Mondo Novo: un universo di eroi dell’immagine, e poi collezionisti, eterni bambini dall’eterna memoria, adepti di camera oscura. Carlo Montanaro – critico cinematografico, saggista, docente – conferma l’appartenenza alla categoria: «Temo di sì – sorride – mi sento un icononauta».
La definizione si addice perfettamente alla sua figura discreta e sorniona, al lampo arguto di chi si diverte a fare quello che fa, e a farlo bene, con il puntiglio intelligente che non soprassiede, ma arriva al punto, sempre. Da pochi mesi è uscito, ancora per i tipi di Marsilio, un saggio-catalogo a cui Montanaro lavora da tempo, Questa è Venezia. 1943, dedicato alla fotografia di Francesco Pasinetti. Un volume importante, non solo per gli addetti ai lavori.
L’occasione vale una visita all’Archivio Carlo Montanaro, la Fabbrica del Vedere che ha sede in calle del Forno, nel cuore del sestiere veneziano di Cannaregio: è qui che l’icononauta conserva i suoi tesori. Carlo Montanaro, «parte buranèo e partenopeo» come lui stesso ama definirsi alla Totò, classe 1946, studia da architetto, ma si fa poi travolgere dalla passione per il cinema. S’impegna con la Federazione Italiana Cineforum, collabora con riviste e quotidiani, vive la Mostra del Cinema veneziana fin dagli ultimi anni dell’era Chiarini. Nel Mercante di Venezia, opera incompiuta di Orson Welles del 1969, il nostro icononauta si aggira da comparsa, vestito di nero, mascherato e col tricorno, e riesce persino a farsi pagare (il che, trattandosi di Welles, è già un successo). Da lì, le prestazioni sul campo si moltiplicano: assistente alla regia di Luigi Comencini, Tonino Valerii, Folco Quilici, Didier Baussy, Tinto Brass, Matjaz Klopcic, Christian-Jaque; autore di svariati programmi RAI.
«L’incontro che mi ha davvero cambiato la vita – racconta – è stato quello con Comencini, alla regia del film Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano. Venezia era stata anche trasformata in Padova, sul set avevamo portato un cavallo con calesse… e io, interpretando male un segnale, ho dato lo stop alle riprese. Comencini era furibondo, mi intimò di andarmene, concedendomi di rientrare purché rimanessi “a cento metri dalla macchina da presa”. Ci sono volute settimane perché mi riabilitasse sul campo, è stata la mia scuola!»
Montanaro si muove con delicatezza tra i tre piani della Fabbrica del Vedere, un blocchetto terra-cielo che ha ristrutturato con l’intenzione di raccogliere ed organizzare il suo Archivio, uno dei più ricchi del panorama cinematografico italiano. Vi si organizzano anche mostre, incontri, workshop. Al piano superiore, trovano posto videoteca, biblioteca e deposito dei materiali: dalle ombre cinesi ai caleidoscopi, alle scatole ottiche, visori stereoscopici, proiettori e lanterne magiche; talvolta pezzi unici, trovati nel corso degli anni nei mercati di mezza Europa. «Le lanterne magiche sono le antenate dei proiettori ora digitali, hanno creato storie, integrando i giochi delle ombre cinesi – chiarisce Montanaro – mentre i visori stereoscopici rappresentano il primo tentativo riuscito di creare l’effetto della dimensione nello spazio della prospettiva».
Un Mondo Novo dell’Archivio, al piano terra dello stabile, sta per partire per Parigi: lo hanno scelto – la notizia è di prima mano – per partecipare ad una mostra al Grand Palais, che si aprirà nel settembre di quest’anno, dal titolo ancora provvisorio “Venezia ai tempi di Vivaldi e Tiepolo”. «Hanno voluto proprio questo – chiarisce Montanaro – perché è originale: malgrado le lenti siano leggermente fessurate, sostituendole si dovrebbe rimuovere lo stucco, anche quello d’epoca, che le fissa alla struttura. È simile nel principio alla lanterna magica, ma il funzionamento è opposto – spiega – le immagini non vengono proiettate all’esterno; è l’osservatore che, per poterle visualizzare, deve guardare all’interno del dispositivo. Vi si possono vedere immagini costituite da dipinti su carta colorati a mano, spesso con alcuni particolari intagliati, per ottenere in trasparenza l’effetto giorno-notte di un paesaggio».
L’apparecchio è affascinante, una sorta di ponte tra il passato del precinema ed i gadgets dell’universo hollywoodiano, mentre di sopra si possono ammirare altre meraviglie, da un’incisione di Canaletto ad alcuni frammenti di negativi originali dei fratelli Lumière, in cui una signora dà da mangiare ai piccioni. «È una vera Fabbrica, perché è stata fondata per lavorare, con lo sguardo e con i pensieri» commenta il suo curatore.
L’Archivio, nato come raccolta privata negli anni Sessanta e poi trasformato nel 2010 in Associazione Culturale, custodisce notevoli testimonianze – oltre che di precinema – di fotografia, cinema e video. L’intento di Montanaro è stato quello di recuperare (ma soprattutto di rendere accessibili) materiali di documentazione sulla storia del cinematografo, con attenzione particolare allo sviluppo tecnico-linguistico, alle opere di avanguardia, al cinema di animazione; contiene copie di “pubblico dominio” di film a passo ridotto e nei sistemi di registrazione videomagnetica, fino ad arrivare al digitale. Le pellicole a passo normale di lungo e corto metraggio vengono invece depositate presso la Cineteca del Friuli di Gemona.
Parallelamente al collezionismo, nel corso degli anni, Carlo l’icononauta racconta e agisce: ha al suo attivo numerosi saggi critici (tra cui uno particolarmente significativo Dall’argento al pixel. Storia della tecnica del cinema, uscito per Le Mani nel 2005); partecipa all’organizzazione di importanti eventi culturali, festival e rassegne, con l’Istituto per lo studio e la diffusione del cinema d’animazione (ISCA), la Biennale di Venezia, il Festival del Film sull’Arte e di Biografie d’Artisti di Asolo (poi AsoloArtFilmFestival) e il MystFest di Cattolica. Con lui nascono le Giornate del Cinema Muto di Pordenone (ne è socio fondatore), un amore e un impegno che continuano tutt’oggi. La funzione anche didattica dell’Archivio si connette alla perfezione con l’impegno di Carlo come docente: Montanaro ha tenuto la cattedra di teoria e metodo dei mass media all’Accademia di Belle Arti di Venezia (di cui, in seguito, è divenuto anche Direttore); ha insegnato teoria e tecnica del linguaggio cinematografico e successivamente restauro del cinema e dell’audiovisivo nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università veneziana di Ca’ Foscari.
«Insegnando, ho dovuto documentarmi – commenta – il cinema devi farlo vedere, non solo parlarne. All’inizio, videocassette, dvd e altro erano impensabili. Così ho cominciato a comprarli, i documenti filmati, e vederli con chi e quando volevo mi è sembrato bellissimo. Poi – negli occhi acuti, un guizzo di golosità infantile – diventa quasi un vizio… Mettiamoci anche la mia predisposizione all’accumulo…».
Già curatore di mostre memorabili (tra tutte, recenti: la sezione cinematografica dell’esposizione dedicata a Man Ray nella Villa Manin di Passariano e la mostra sul Mondo Novo conservata nella Fondazione Musei di Venezia e organizzata nell’Espace Louis Vuitton di Venezia), l’icononauta ha coordinato – come Associazione Culturale Archivio Carlo Montanaro – l’attività del Comitato regionale per le celebrazioni del centenario della nascita di Francesco Pasinetti, dal 2011 ad oggi. Già da sola, quest’ultima avventura è così bella, intricata e magica da apparire un film.
È la storia di un fondo, appunto il fondo Francesco Pasinetti, fatto di quanto è scampato all’incendio della casa veneziana del grande cineasta, dopo la sua morte, che gli eredi hanno affidato all’Archivio di Carlo. Soprattutto materiale fotografico. Nel tempo, Montanaro continua a cercare, e acquisisce, per acquisto o per scambio, altri reperti cartacei pasinettiani reperiti nei luoghi più diversi – persino al mercato romano di Porta Portese – o presso collezionisti. È un’occasione unica per studiare più a fondo la figura e l’opera del poliedrico e geniale regista veneziano, ancora molto da scoprire. Così le celebrazioni del centenario danno il via ad un incredibile susseguirsi di eventi e di scoperte che Montanaro ha gestito con la sapienza del conoscitore e la misura del tecnico: «Dopo l’incendio – racconta – in cui andarono perduti collezioni preziose d’incisioni e libri d’epoca, dipinti e disegni del nonno di Pasinetti, il celebre vedutista Guglielmo Ciardi, e degli zii Emma e Beppe, ritrovammo parecchie scatole con le bustine da biglietto da visita (fantastiche per conservare i negativi che contenevano) con il relativo stampone per contatto incollato all’esterno, assieme ad alcune stampe positive, incredibilmente sopravvissute. Ancora non sapevamo, però, che facessero parte di un progetto editoriale».
Sarà lo storico della fotografia Alberto Prandi – continuando a studiare quei frammenti singolari, immagini da cui emerge una Venezia fuor di stereotipo, e rinvenendo una breve corrispondenza tra lo stesso Pasinetti e l’editrice Daria Guarnati nel fondo del fratello di Francesco, lo scrittore Pier Maria – a convincersi che un certo numero d’immagini di quella serie fotografica fa parte dell’idea di un libro. Guarnati, il 25 gennaio 1943, scrive: «Carissimo Pasinetti, potete mandarmi subito espresso raccomandato Alb. Europa Milano le vostre foto di Venezia? Avevate pensato ad un testo? Quanto tempo per prepararlo? Quale compenso per foto e testo? Rispondetemi con la vostra solita rapidità e chiarezza!». Una copia di lettera datata 28 gennaio, priva di destinatario, reca la risposta del regista: «Io ho pensato, ed è già pronto – scrive – ad un breve testo introduttivo. Poi soltanto fotografie, una per ogni pagina […] Il titolo del volume, pensavo e penso tutt’ora, che potrebbe essere il seguente: Questa è Venezia vista da Francesco Pasinetti in duecento tavole fotografiche».
Carlo Montanaro, tra le mani il libro che oltre settant’anni dopo ha concretizzato l’idea del regista veneziano, morto prematuramente nel 1949, commenta con un velo di tristezza: «Il destino ha voluto che anche ad Alberto Prandi fosse negato di portare a buon fine l’opera. Abbiamo riportato nel volume, che gli è dedicato, un suo importante intervento sulla metodologia d’indagine che ha utilizzato in questi anni per costruirlo. Una parte delle immagini che avrebbero dovuto comporre il progetto è andata dispersa, ma i due terzi che rimangono sono più che sufficienti per capire quale fosse la Venezia che Pasinetti vedeva, uno dei tanti punti chiave della sua instancabile attività che andava dalla fotografia al cinema, dal teatro al giornalismo, dall’insegnamento (è stato docente e poi Direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma) alla divulgazione».
Questa è Venezia, a cui si è accompagnata – a cura di Montanaro – la preziosa mostra Pasinetti fotografo e cineasta, svoltasi a Roma, al Teatro dei Dioscuri al Quirinale e conclusasi nel gennaio scorso, con una selezione di fotografie restaurate e stampate da Francesco Barasciutti, rappresenta in effetti molto più che un catalogo, anche se è un bellissimo catalogo. Splendida la Biografia, sempre a firma di Carlo Montanaro e di Luisa Pagnacco, la più esaustiva pubblicata fino ad oggi sul cineasta. Di ogni foto, si riporta il provino con le indicazioni di ridimensionamento tracciate da Pasinetti stesso, seguendo la sequenza originale: si delinea, immagine dopo immagine, un concetto di Venezia per cesure ottiche precise, che nulla concedono al banale.
Un po’ come in Venezia minore (1942), forse il capolavoro tra i documentari pasinettiani, non contano i monumenti in quanto tali; conta piuttosto il loro essere percorsi, abitati o disabitati con naturalezza, vissuti dai bambini che vi giocano, dagli innamorati e dai vinai, dai trasportatori e dalle donne con la borsa della spesa. Foto profondamente antiretoriche, alternative alla pubblicistica dominante: «Moderno Pasinetti – conferma Carlo Montanaro – con una concezione pittorica della fotografia che gli proveniva dalle sue radici familiari. Guglielmo Ciardi, la zia Emma e lo zio Beppe dipingevano, mentre lui predilige un mezzo più attuale, anzi i nuovi modi per costruire immagini, ossia fotografia e cinema… Eppure continua a vedere la realtà, la realtà che muta, con un approccio classico, importante dal punto di vista luministico e compositivo».
Le foto di Questa è Venezia mettono in risalto proprio la luce, lo studio delle ombre che si allungano sui campi, tanto – come sostiene l’icononauta – da poterci regolare gli orologi. Talmente vere, queste immagini, da prefigurare un Pasinetti precursore del neorealismo? «Assolutamente sì – chiarisce Montanaro – Pasinetti è stato forse il primo che, nell’unico lungometraggio narrativo che è riuscito a portare a termine, Il Canale degli Angeli del 1934, è andato a girare per strada, ha fatto recitare degli esordienti. Anche i suoi primi documentari avevano uno stretto contatto con la vita reale, pur attribuendo grande importanza alla qualità estetica delle riprese. Il primo che seguirà la sua strada sarà Michelangelo Antonioni con Gente del Po».
Pier Maria Pasinetti, in un articolo per “Il Ventuno” (rivista culturale fondata nel 1932 dai fratelli Pasinetti per i GUF di Venezia, ma non confessionale rispetto al regime) ebbe a scrivere: «…il veneziano qualunque dovrebbe iniziare a ricostruire mentalmente Venezia, vale a dire operare una revisione da cima a fondo». «Infatti – conclude Montanaro – servono a noi questi ponti di cui abbiamo scordato i particolari, queste facciate di cui nessuno si accorge. Venezia è un ventre e un vuoto, l’ho scritto nella Premessa del libro. Bisogna cercarla, non si trova mica subito. Bisogna guardarla, perché dipende dagli occhi».
Parola d’icononauta, di uno che di visioni – probabili e improbabili, vere o immaginate – se ne intende proprio.