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La vita spesa a cercare giustizia del cittadino Manlio Milani

GIUSEPPE CERETTI

44 anni dopo, un’altra vita. 28 maggio 1974. Una brutta giornata, per via di quel cielo di piombo che scarica acqua su Brescia. Tuttavia a mettermi di malumore non è la pioggia, ma gli agenti in assetto d’intervento, rinchiusi nelle camionette che occupano il bel cortile del palazzo medievale del Broletto, sede di uffici di Provincia e Comune. Non sono lì per caso. Sono stato assunto, come tanti altri giovani, dopo il lungo precariato avviato con il censimento del 1971. Da pochi mesi sono impiegato, con il sogno inseguito e poi raggiunto di fare il giornalista.

Ma quella mattina non c’è spazio per i sogni. Sono giorni terribili per chi ha a cuore la democrazia. Attentati, un clima di tensione. Pochi giorni prima un neofascista è morto per una bomba scoppiata anzitempo che doveva causare vittime. È per questo che sindacati e comitato antifascista, che raccoglie partiti e movimenti democratici, hanno deciso di scendere in piazza. Piazza della Loggia, il simbolo della città.

Lascio gli uffici e mi avvio verso la piazza, lontana solo poche decine di metri. Anch’io, come tanti, mi fermo sotto i “macc delle ure”, una coppia di campanari che dal 1888 detta il tempo da lassù, proprio sopra quella solida arcata che sostiene il magnifico loggiato. Lì rimango e lì sarei rimasto, con un umor nero che non mi lascia tregua, per via di qualche banale discussione con chi è rimasto negli uffici. Poco male, perché la piazza è gremita e il corteo ancora si snoda lungo le altre vie del centro.

Immerso in pensieri svogliati, sento qualcuno che mi tocca una spalla. Un giovane in divisa, un militare in congedo, un amico, un compagno. Tempo di scendere dal treno ed eccolo in piazza, come sempre travolgente, allegro. Caro Lucio, ancora non lo so, ma forse ti devo la vita. Entro in corteo e subito è un fiume di parole, un rapido ragguaglio di quanto è accaduto in quei giorni. Quanti metri? Non lo so. Quanti minuti? Cinque a far tanto di una concitata conversazione, il tempo di giungere lentamente sul lato opposto, sotto il grande portico del palazzo comunale. Sento un’esplosione, forte, come mai avevo udito in vita mia.

Mi giro di scatto e il respiro si fa ansioso, non ce la faccio nemmeno a piangere. Quanti sono quelli a terra? Cento, mille, di più? A un passo da me, un uomo corpulento è stato letteralmente gettato contro la saracinesca di un negozio. È vivo, stordito, confuso, balbettante, ma vivo e quell’intrico di lamiere, così mi pare, lo accoglie come un redivivo.

Ma è laggiù, dov’ero, che si è consumata la tragedia. Un gruppo di insegnanti, amici, riuniti da comuni interessi e ideali. Stavano discutendo, così saprò, dell’esito di un convegno sindacale sulla scuola e dei fattacci di quei giorni.

Altri passi e raggiungo il capolinea di quella barbarie. Vedo solo un uomo, chino, che sorregge un corpo inanimato.

Lo riconosco, è Manlio Milani, militante del Pci. Sorregge con una mano la moglie Giulia, una delle otto vittime della strage, mentre l’altra fa da schermo alla fronte. Quel fermo immagine, scattato dai primi fotografi giunti in piazza, è rimasto negli anni l’emblema di una strage impunita.

Già, 44 anni dopo, per giungere a una verità che solo depistaggi, servizi e apparati dello Stato deviati hanno negato per un tempo infinito. Quante impunità all’ombra degli esecutori.

No, giustizia piena non è stata fatta. Ma se il disegno di quella strage ora è chiaro, se evidenti sono le responsabilità di esecutori e mandanti, lo dobbiamo a quell’uomo chino sul corpo straziato. Milani ha dedicato la sua vita a ricostruire quell’intrico politico, scoprendo via via collusioni, complicità, fino ai silenzi anche di chi doveva essergli vicino e ha preferito anteporre convenienze di politica contingente.

Per questo mi pare che quella data tragica della storia della nostra fragile democrazia, il 28 maggio 1974, gli appartenga. Manlio Milani ha mantenuto la barra ferma, rimettendo sempre insieme i cocci di una tragedia che si era infranta contro connivenze, complicità, opportunità politiche. E lui paziente, indomabile, anno dopo anno.

Dopo quel tragico giorno lo incontrai per un’intervista sull’Unità, nel gennaio del 1993. Paziente, gentile, disponibile, mi offrì un quadro preciso dell’inchiesta, degli errori, dei depistaggi. Mi disse che l’oblio non è il frutto della distanza temporale, ma la mancata individuazione dei responsabili. Mi raccontò di come fosse riuscito, con l’aiuto degli affetti familiari, a ricostruirsi una nuova vita. Il nostro dialogo si concluse con queste sue parole: «Non ho mai cercato colpevoli a tutti i costi, ma solo la verità».

Alla fine mi ringraziò. Grazie? Ero io, in realtà, eravamo noi tutti a dovergli dire grazie. Mentre gli stringevo la mano, non potei fare a meno di notare che quel volto, certo sorridente, aveva in sé, immutati, lo strazio e la malinconia che per un istante avevo letto nel viso dell’uomo in piazza chino sul suo immenso dolore.

Non so se mai avremo occasione di rivederci, ma sento di dovere un tributo a chi anche oggi non chiude la porta agli assassini di sua moglie («se vorranno parlare con me io ci sarò») e che ha commentato l’ultima sentenza con parole tanto semplici quanto ricche di dignità: «ora la mia vita ha un senso».

Manlio Milani in novembre compirà 80 anni. Il meno che possa fare, da cittadino qualunque, è di unirmi a quanti hanno inviato una petizione al capo dello Stato per nominarlo senatore a vita, a chi la vita l’ha spesa cercando verità e giustizia e onorando con il proprio comportamento la democrazia.