Il dodo è morto, viva il dodo: incredibile il caso di un animale estinto da secoli, capace di stimolare la fantasia di artisti, scrittori e musicisti tanto da risorgere – come la Fenice – a nuova vita. Tutto è buono, purché se ne parli: persino ispirare frasi idiomatiche (specie in lingua inglese) come as dead as the dodo, che si potrebbe tradurre con “morto e sepolto” o gone the way of the dodo, letteralmente “andare nella direzione del dodo”, quando si vuole indicare qualcosa o qualcuno passati inequivocabilmente di moda. Eppure, se c’è un personaggio che non è affatto passato di moda, quello è proprio il dodo.
Il nome deriva dal portoghese antico doudo (che significava “stupidotto”, “inetto”) e – almeno fino alla metà del diciassettesimo secolo – stava a designare un uccello columbiforme, tipico dell’isola di Mauritius. Particolare e simpatico (almeno dalle illustrazioni che ce lo hanno fatto conoscere e dai rari reperti esistenti), il dodo era sicuramente incapace di volare, nidificava a terra e si nutriva di frutti. Pesante, sui venticinque chili, con un becco robusto ed ali atrofizzate: pare che la sua fine sia stata provocata dall’arrivo sull’isola prima dei portoghesi e poi degli olandesi, che importarono altre specie (maiali, ratti, gatti e cani) e disboscarono il territorio. Tuttavia, è una diceria infondata che l’estinzione del dodo sia stata dovuta alla caccia dei coloni; la sua carne non era molto appetibile, anche se le uova erano commestibili. Resta il fatto che non se ne avvistò più uno dopo il 1681. Caso strano, con il dodo sparì anche – disboscamento a parte – una tipologia precisa di alberi, i tambalacoque Calvaria major, che si suppone vivessero in simbiosi con gli uccelli: probabilmente il Raphus cucullatus (nome scientifico del dodo) becchettava con il suo ventriglio robusto i tegumenti dei semi, rendendoli così germinabili.
Nessuno pensava se ne sarebbe parlato ancora, se non per quel dodo rampante, dal grande becco, effigiato sullo stemma delle isole Mauritius. Invece, il caro estinto ritorna nell’età contemporanea, coniugato in un’infinità di esempi diversi: dai libri di fantascienza (si pensi a The Last Dodo di Jacqueline Rayner) ai film di animazione (memorabile la sua apparizione ne L’era glaciale del 2002), alle serie a fumetti come Martin Mystère. Il gruppo dei Genesis lo cita nell’album Abacab e Roger Waters in Amused to Death. Generazioni di bimbi italiani, poi, sono stati cullati dal Dodò, ancora un dodo, de L’albero azzurro. Dalla birra ai gioielli, dalle automobili ai gadgets, il dodo è divenuto – più a proposito – anche il simbolo della Durrell Wildlife Conservation Trust, l’organizzazione fondata da Gerald Durrell che studia le specie animali in via di estinzione.
Tuttavia, la consacrazione filosofica del goffo uccello si deve (almeno in via indiretta) allo scrittore Lewis Carroll che ne fa un personaggio del suo Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie: una sorta di autoritratto umoristico, un gioco di parole collegato al suo vero nome “Do-Do- Dogson”. Nel 1936, uno studioso di psicoterapia statunitense, Saul Rosenzweig, formulò una teoria secondo la quale i diversi indirizzi terapeutici avrebbero tra loro effetti simili, anche se esisterebbero altri fattori non identificabili in ogni situazione di cura (fattori che possono rivelarsi ancora più importanti, proprio perché incidentali, di quelli utilizzati di proposito). È così che la vicenda del dodo assurge a paradigma. Rosenzweig – facendo riferimento ad una gara narrata in Alice, in cui i concorrenti iniziavano e concludevano la gara quando volevano – parlando delle diverse psicoterapie, citò il Dodo di Carroll quando sostiene che «tutti hanno vinto e tutti devono avere un premio». Quell’equivalenza generale dei benefici terapeutici, da allora, è stata chiamata Verdetto del Dodo. Chissà se il modello potrebbe avere altre applicazioni nella società contemporanea: nelle emergenze storico-politiche, forse, nell’appiattimento degli ideali. Probabilmente, il Verdetto del Dodo ci riguarda, ipocritamente, un po’ tutti.