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Faber, una miniera tutta da scoprire

Le parole che Faber non ci ha detto sono racchiuse in un grande armadio. Fabrizio De André scriveva sempre, dappertutto e dentro quest’armadio, ben custoditi, stanno i quaderni rilegati con cura o centinaia di fogli sparsi, in libertà. Ci sono stereotipate agende delle banche che lui utilizzava come brogliacci, accanto a quelle più curate, che contenevano appunti più sistematici. Carte su carte, che si trovano nell’Archivio che porta il suo nome e che ha sede a Siena: è naturale che in questi giorni dedicati al suo ricordo, queste carte siano diventate una miniera di approfondite ricerche.

Giulia Giovani, studiosa di storia della musica che dirige il Centro, commenta l’estesa emozione popolare di queste giornate: «Quello che più mi fa effetto nel leggere le parole degli ammiratori di Fabrizio De André è come quest’artista abbia influenzato la vita di molte persone, che ancora oggi lo sentono vicino, lo cantano, lo fanno proprio. Persone che tengono a farci sapere, giorno dopo giorno, cosa provano nell’ascoltarlo e quali momenti della loro vita sono stati accompagnati dalla sua voce inconfondibile. La prossima borsa di studio del Centro Studi De André sarà bandita proprio per aiutarci a comprendere come è percepita l’opera di Fabrizio».

Le prime carte di Fabrizio De André arrivano a Siena nel 2003, e formano l’unica estesa documentazione sull’artista genovese. L’archivista che ha seguito la strutturazione, Stefano Moscadelli, la descrive come composta di tre principali tronconi. Nel primo, ci sono le carte della fanciullezza e dell’adolescenza, la corrispondenza con i genitori, le letterine di Natale, le prime prese di posizione e tutto ciò che lo stesso cantautore ha amato conservare di quegli anni. Il secondo è quello in cui è contenuto tutto ciò che resta della documentazione dell’artista: dai fogli che testimoniano le esigenze della vita quotidiana, agli appunti sulla professione e sulle opere composte. Molto, davvero molto è materiale di studio e di lavoro. Il terzo contiene libri, con notazioni autografe e pagine di riflessione. Le pagine dei quattrocento libri che si conservano all’Università (non rappresentano tutta la sua biblioteca), sono piene di notazioni a margine, di sottolineature, di spazi bianchi riempiti con considerazioni su libri letti in precedenza, di confronti stilistici. Autori diversissimi, a volte complementari, altre volte al di fuori di qualunque schema. Tanta filosofia: Plotino, Platone, Spinoza, Hegel e, naturalmente, Sartre e Adorno. Scrittori e poeti: da Verlaine a Camus e Proust, da Solochov e Steinbeck a Sepúlveda.

In questa miniera di carte si trovano poi buste vuote o con lettere ricevute, fatture e preventivi, certificati di residenza ed elettorali. Oppure carte più delicate, da lui conservate con maggiore cura, come quelle concernenti il processo sul suo sequestro. Era un grafomane. Solo mettendo insieme questi “verbali” dei suoi pensieri, ci si può avvicinare alla sua complessa vita e alla mirabile proiezione di un artista che ha segnato il secondo Novecento italiano. Dori Ghezzi che ben conosce le carte di Fabrizio e i suoi segreti – che ha aiutato non poco a raccogliere e selezionare quelle che oggi sono conservate al Centro Studi – ha scritto, in Sotto le ciglia chissà. I diari, un volume che raccoglie alcune carte: «Fabrizio annotava molto. Quando lo faceva in modo estemporaneo e improvviso forse era più per incidere nella memoria, scrivendo, più che per rileggere. Quando stava creando, lo faceva in modo professionale, dentro un progetto, riordinando il materiale».

Il volume sui diari permette di cogliere le coordinate del pensiero e del lavoro di Fabrizio De André. Quante volte ci saremo chiesti – specie in questi giorni – come si “crea un’opera”. Lui sapeva bene quale mestiere stesse facendo (« mi comprai la vita con i canti e i sorrisi») e s’interrogava sul perché scriveva («per paura che si perda il ricordo delle persone di cui scrivo»). Non ammetteva domande retoriche, liquidando così l’impertinente di turno: «Non chiedete a uno scrittore di canzoni che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell’opera: è proprio per non volervelo dire che si è messo a scrivere. La risposta è nell’opera».

Quasi profetico – l’argomento è quanto mai attuale – il suo giudizio sui razzismi: «Con i razzisti e con i nazisti non si convive, non si tratta, li si chiude, loro sì, dentro quattro mura, e che dimostrino lì la loro autosufficienza, le loro capacità di uomini superiori, la loro grande forza esercitata, chissà perché, sempre e soltanto con i deboli». Nelle carte dell’Archivio si rintracciano i nessi della sua riflessione, del suo impegno etico e morale oltre a scoprire anche alcune sue modalità nel comporre. È esemplare il modo con il quale scrive Princesa, la struggente canzone che apre il suo ultimo lavoro, Anime Salve. Davvero Fernanda Farja de Albuquerque, trans brasiliana, «mescolava il sangue con gli ormoni», in una vita che è finita tristemente nelle pagine di cronaca nera.

Il testo della canzone prende spunto da un libro, scritto in carcere, da Maurizio Iannelli, sulla base di biglietti e annotazioni della stessa Fernanda Farìas, cioè  Princesa, che così contribuisce a ricostruire la storia autobiografica: dall’infanzia nelle campagne brasiliane, ai marciapiedi di Milano. Fabrizio De Andrè conosceva la storia non solo per le pagine scritte dall’ex brigatista, ma anche attraverso la cronaca nera. In uno dei ritagli di giornali il cantautore rileva l’omicidio, nel 1994, di un travestito peruviano che si prostituiva a Milano nella zona di via Melchiorre Gioia, la stessa frequentata da Princesa. Le carte conservate nell’Archivio dell’Ateneo senese svelano, quindi, la genesi della canzone.

Arcinota l’abitudine di Fabrizio De André di accompagnare la lettura dei giornali con la sottolineatura dei testi. È lui stesso a spiegarlo, in un’intervista del 1967: «Leggendo una novella, un libro o semplicemente un giornale mi viene improvvisamente l’idea per un testo. Allora per ricordarla faccio una stesura in prosa. Poi, in base a questo schema, che può essere allegro, drammatico o ironico, secondo l’impulso che l’ha ispirato, invento la musica alla chitarra. Quindi, leggendo la prosa scritta in precedenza, faccio i versi in rima». L’autore ci conduce, così, per mano nei meandri della sua creazione artistica. A questa fase iniziale seguivano – talvolta anche a grande distanza di tempo – i momenti di massimo sforzo creativo quando scriveva una canzone e doveva accordarla con la musica. In quei delicati passaggi, limava costantemente il testo.  Ivano Fossati – coautore dell’ album Anime salve – testimonia questo modo di lavorare: «Fabrizio […] si imponeva dei vincoli folli. Quindi prendersi l’impegno di lavorare con lui significava prendersi un impegno duro, anche di ore di lavoro, di intensità. Lui faceva così. Non si distraeva, si concentrava; si legava alla sedia, alla VittorioAlfieri».

Alcuni fogli sciolti, a quadretti, forati, originariamente raccolti in un quaderno di grande formato ad anelli, contengono l’abbozzo di testi e le varie fasi di elaborazione di canzoni poi confluite nell’album Anime salve. Tra gli altri c’è anche il testo di Princesa ed è possibile, almeno in questo caso, cogliere quasi in dettaglio il lavoro. Da una prima riflessione, in prosa, sulla vita di Princesa, ai motivi dell’ispirazione poetica: «I consueti giochi d’infanzia sotto la protezione del bosco. Lui fa sempre la parte della femmina. La mutazione si accompagna all’evasione, fuori dall’orizzonte degli occhi della madre: c’è chi non evade non muta. In città, un’esplosione: le luci, il numero delle macchine, la femminilità crescono con il crescere della città: il pudore si trasforma in consapevolezza e la consapevolezza in orgoglio, l’orgoglio in spettacolo». Il testo è scritto con penna a sfera a inchiostro blu, tranne alcune parti in cui de André usa una penna a sfera a inchiostro nero. Le tracce della stesura del testo continuano poi nelle tre pagine in cui – con scrittura corsiva minuscola – butta giù varie quartine e le corregge costantemente, ricorrendo a cancellature e aggiunte interlineari. Colpisce, ad esempio, l’evoluzione della prima quartina. Il risultato finale sarà di grande impatto, quasi per catapultare immediatamente l’ascoltatore di fronte alla protagonista della storia: «Sono la pecora sono la vacca/ che agli animali si vuol giocare/ sono la femmina camicia aperta/ piccole tette da succhiare». È evidente la provocazione voluta da De André e determinata dal chiaro uso del doppio senso tra il gioco e l’atto sessuale. La documentazione disponibile permette, quindi, di lavorare sul testo di Princesa, intrecciando fonti di natura letteraria e giornalistica, di confrontare lo schema compositivo preliminare con successive elaborazioni, fino al testo finale che De André suggella con caratteri maiuscoli.

Ci vorrebbero giorni e giorni per annotare ciò che c’è in quell’armadio dell’Archivio. Chi l’ha osservato da vicino vi ha trovato piccoli tesori. Uno lo segnala Marco Ansaldo: «C’è una sua poesia su San Francesco. Quasi non ci si crede: proprio il santo fonte di ispirazione per il nuovo Papa, Jorge Mario Bergoglio. È in stampatello. Un testo che arriva all’improvviso a confermare la consonanza di temi fra De André e il Pontefice. Perché proprio gli ultimi, i diseredati, sono i protagonisti della poetica di Fabrizio prima che il Papa Francesco ne facesse il suo campo di battaglia».

Annotava Fabrizio De André, citando Seneca, in uno dei suoi fogli: «E che dire di quelli impegnati a comporre, ascoltare e imparare canzoni, o che si sforzano di imprimere un’inflessione e un tono languidi alla loro voce, a cui la natura ha già dato la giusta intonazione semplice e funzionale?». Seneca descriveva i riti canori dei suoi tempi, Fabrizio de André lo usava per dirci molto dei nostri.

Questo articolo è pubblicato anche su “Strisciarossa