LA CASA EDITRICE VISIONI

Gramsci e Montanelli, ovvero il culo e le 40 ore

Oreste Pivetta

Sulla sua bacheca di Facebook, il 6 agosto scorso, Oreste Pivetta – colto giornalista della ex redazione de “l’Unità” di Milano – ha acutamente e con un briciolo di malizia segnalato la bizzarra lettera e l’ancor più bizzarra risposta, pubblicate nella rubrica della corrispondenza con i lettori del “Corriere della Sera” il giorno prima, sabato 5 agosto 2017, intitolate Montanelli e Gramsci.

Scrive Rosalino Sacchi, il lettore del quotidiano fondato nel capoluogo lombardo da Eugenio Torelli Viollier e Riccardo Pavesi nel 1876:

Indio Montanelli

«Caro direttore, leggo il “Corriere” e mi trovo alle prese con due diverse concezioni dello scrivere. Francesco Cevasco (3 agosto) è dalla parte di Montanelli, il quale insegnava ai giovani che “quando scrivi ti deve capire il professore dell’Università, ma anche la sua portinaia”. Mauro Bonazzi (“La Lettura”, 30 luglio) invece celebra Gramsci il quale, quando lo rimproveravano di scrivere “difficile”, rispondeva: scrivo difficile perché sono stufo che operai e contadini siano considerati “come dei bambini che hanno bisogno di essere guidati”. Ho grande stima di Gramsci, ma sui miei scaffali c’è tutta la Storia d’Italia di Montanelli».

Antonio Gramsci

Leggendo due articoli tanto diversi – uno è la recensione del volume di Carlo Grandini intitolato Noi eravamo quei giornalisti. Il “mio” Montanelli e l’altro la ricostruzione dello spirito democratico e antipopulistico di Pericle, accostato a Gramsci fin dal titolo, Pericle e Gramsci lottano uniti. Agli antipodi del populismo, per sostenere che al politico greco non sarebbe dispiaciuto il pensatore sardo in virtù della comune volontà di usare un linguaggio che non raggiri chi ascolta come spesso fa il vuoto retore – non è facile comprendere l’ambascia in cui si è trovato il signor Sacchi ed il suo bisogno di farsi illuminare dal direttore del “Corriere”, Luciano Fontana, a lungo caporedattore centrale de “l’Unità” e persona di rara maleducazione, cosa che ho avuto occasione di dirgli di persona in pubblico con una lettera aperta.

Il quale ha appunto lavorato nel quotidiano fondato da Antonio Gramsci ed ora tiene le redini del quotidiano da cui Montanelli si staccò a partire dal 1972 con l’affidamento della direzione ad un impareggiabile giornalista, Piero Ottone, per fondare nel giugno del 1974 quel Giornale nuovo da cui – ahinoi! – vent’anni dopo venne senza tanto garbo allontanato.

Luciano Fontana

Ma ancor più difficile è comprendere la logica della risposta del Fontana, tesa solo ad accreditare la propria propensione per un grandissimo giornalista che tuttavia non ha mai negato di essere dichiaratamente schierato su posizioni più che moderate, conservatrici, fino al punto, divenuto celebre, di invitare gli italiani a turarsi il naso nel 1976 votando una impresentabile Dc pur di impedire la vittoria alle elezioni del Partito comunista. Ecco quel che scrive il lider maximo di via Solferino:

«Caro Sacchi, anche nella mia libreria ci sono tutti i libri di Indro Montanelli che considero un grandissimo giornalista proprio per la sua capacità di scrivere in modo chiaro, e spesso fulminante, per tutti. Aveva un’incredibile conoscenza della storia e della società italiana ma sapeva trasformarla in articoli brevi, accessibili a ogni tipo di lettore, senza cedere mai ai vezzi degli “iniziati”. Mandava i suoi articoli al giornale sempre con la postilla: “Correggete se c’è qualcosa che non va o non si capisce”. Nessuno aveva mai niente da toccare o correggere, erano sempre perfetti».

Nulla da eccepire riguardo Montanelli, le sue capacità professionali, le sue doti nella scrittura. Ma, avrebbe detto un poliziotto passato alla politica: «Che c’azzecca?», facendogli eco la vulgata fiorentina secondo la quale «c’entra come il culo e le quaranta ore». O, come scrive nel suo post Oreste Pivetta, «il confronto mi è sembrato improponibile». E lo è.

Paolo Franchi

Sul giornale che egli stesso dirige, forse non accorgendosene, Fontana aveva pubblicato solo due mesi prima, il 30 maggio per l’esattezza, un lungo articolo di Paolo Franchi – anch’egli un passato, non rinnegato, nella stampa comunista, da “Rinascita” a “Paese Sera” – dal titolo Gramsci giornalista senza tabù. «Ci vuole l’articolo di un fascista», prendendo spunto dal libro che TESSERE ha pubblicato, con la curatela di Gian Luca Corradi, la prefazione di Luciano Canfora e la postfazione di Giorgio Frasca Polara, mettendo insieme gli scritti di Gramsci sul giornalismo, tratti dai Quaderni e dalle lettere spedite prima e dopo la carcerazione, e da giornalista: su “l’Unità”, certo, che fondò perché anche chi non aveva studiato molto, come operai e contadini, e perciò avesse difficoltà a leggere, potesse farlo e così comprendere, avere gli strumenti per essere informato e giudicare. E quindi gli si dovesse scrivere in modo chiaro, che fosse comprensibile, ma suscitando nel lettore voglia di saperne di più, di aumentare ogni giorno il patrimonio lessicale in proprio possesso.

Su “l’Unità”, certo, ma anche su “l’Avanti!”, su “L’Ordine Nuovo”, su “l’Unione sarda”, sul “Corriere universitario”, su “La Correspondance Internationale”. Più di 1.500 articoli, «tante righe da poter costituire 15 o 20 volumi da 400 pp.», scriveva a Tatania dal carcere di Turi il 7 settembre 1931.

Pretende chiarezza da se stesso e dai redattori del giornale, Gramsci, al punto da litigare con loro quando questo non avviene – ne è testimonianza lo scambio infuocato di lettere che ebbe con Alfonso Leonetti nel settembre del 1926 –, ma pretende anche che chi legge il giornale si sforzi, si sforzi comprandolo il giornale e leggendolo, leggendolo e facendolo leggere, diffondendolo, e poi cercando in un vocabolario o in una enciclopedia quelle cose lette che non ha compreso.

Ma pretende anche che il giornale ed i suoi redattori si sforzino in questo senso. Scrive nei Quaderni, con grande chiarezza:

«La rubrica Querelles de langage affidata nelle “Nouvelles Littéraires” ad Andre Thérive (che è il critico letterario del “Temps”) mi ha colpito pensando alla utilità che una simile rubrica avrebbe nei giornali e nelle riviste italiane. Per l’Italia la rubrica sarebbe molto più difficile da compilare, per la mancanza di grandi dizionari moderni e specialmente di grandi opere di insieme sulla storia della lingua […] che potrebbero mettere in grado un qualsiasi medio letterato o giornalista di alimentare la rubrica stessa.

Il volume di TESSERE su Gramsci giornalista

[…]

Perché la rubrica sia interessante, il suo carattere dovrebbe essere molto spregiudicato e prevalentemente ideologico-storico, non linguaiolo e grammaticale: la lingua dovrebbe essere trattata come una concezione del mondo, come l’espressione di una concezione del mondo; il perfezionamento tecnico dell’espressione, sia quantitativo (acquisto di nuovi mezzi di espressione), sia qualitativo (acquisto delle sfumature di significato e di un ordine più complesso sintattico e stilistico) significa ampliamento e approfondimento della concezione del mondo e della sua storia. Si potrebbe cominciare con notizie curiose: l’origine di «cretino», i significati di «villano», la stratificazione sedimentaria delle vecchie ideologie (per esempio: disastro dall’astrologia, sancire e sanzionare: rendere sacro, dalla concezione religiosa sacerdotale dello Stato, ecc.). Si dovrebbero così correggere gli errori più comuni del popolo italiano, che in gran parte apprende la lingua dagli scritti (specialmente i giornali) e perciò non sa accentare giustamente le parole (per esempio «profúgo» durante la guerra: ho sentito persino, da un milanese, pronunciare «roséo» per roseo, ecc.). Errori molto gravi di significato (significato particolare esteso, o viceversa), errori e garbugli sintattici e morfologici molto curiosi (i congiuntivi dei siciliani: «si accomodasse, venisse», per «si accomodi, venga», ecc.)».

La nota si intitola Una rubrica grammaticale-linguistica, fa parte del Quaderno n. IX, e TESSERE è orgogliosa di averla appunto ripubblicata in un volume che finalmente dà conto anche di quanto il giornalismo sia stato importante per Gramsci, ma soprattutto di aver raccolto il suo invito a tenere «una simile rubrica», pubblicando ogni giorno una parola che arricchisca il vocabolario, la proprietà di linguaggio e le conoscenze di chi legge.

Con una conclusione un po’ retorica, resta solamente da capire il perché del bisogno di tanta “intellighenzia” di infierire sul corpo ormai esanime di quanti, a cominciare da Gramsci, avevano ideali di giustizia ed eguaglianza, a costo di strapazzare lo stesso Gramsci una volta dalla parte di chi voleva il socialismo e l’altra di quanto lo avrebbero osteggiato.

Pecunia non olet, dicevano gli antichi, e la ragione deve stare da quelle parti, là dove ci sono altri tipi di puzzo, non quello del denaro che non ne ha.

P.S. Come spiega il link laddove l’espressione viene usata nell’articolo, a Firenze è d’uso dire «c’entra come il culo e le quarant’ore» per indicare qualcosa che non ha nulla a che vedere con un’altra, similmente a «ci sta come il cavolo a merenda». Pare che il detto fu coniato in una delle chiese più piccole della città, quella dei Santi Apostoli Pietro e Paolo che si trova nella magica piazzetta del Limbo, durante alcune funzioni religiose che consistevano nell’esposizione del Santissimo Sacramento per la durata di 40 ore consecutive, quando una donna prese a schiaffi un uomo alle sue spalle che la stava palpeggiando. All’imbarazzata giustificazione dell’uomo che attribuiva l’inopportuno gesto alla calca venutasi a creare a causa delle 40 ore, la donna replicò stizzita: “O cosa c’entra il culo con le quarant’ore?”