CRITICA MUSICA

Il “Brown Rice” di Don Cherry

Inizia con questo articolo la prestigiosa collaborazione di Fernando Fanutti, direttore artistico di Musicus Concentus, con TESSERE. L'album "Brown Rice" di Don Cherry è un viaggio tra i suoni del mondo, istintivo, viscerale, personale, tanto casuale all’apparenza, quanto indicatore profondo della futura musica senza frontiere

Nato in Oklahoma, terra devastata dal petrolio, Don Cherry migrò in California dove poco più che ventenne nel 1958 entrò con la sua tromba nel quartetto di Ornette Coleman, con cui si trovò a inventare le regole del free jazz. Guarda la contraddizione! Per via dell’osmosi tra società e cultura, anche il jazz cominciava a premere contro le strettoie degli accordi, dei tempi e delle melodie, in cerca della libertà in tutte le sue forme: e in mezzo al disordine delle strade una genia di musicisti era in cerca di una nuova espressione, di una nuova comunione.

L’ascesa di Donald Eugene Cherry fu irresistibile e in pochi anni divenne un leader immaginifico e poliedrico. In poco più di un lustro, tuttavia, appena dopo lo scioglimento dei New York Contemporary Five, un’altra band cruciale per la storia del free jazz, la sua parabola americana si compiva e Don abbandonava gli States per l’Europa, l’Africa e l’Asia, come già nel 1966 testimonia un Live At Cafè Montmartre.

Nel viaggio della sua vita, sempre insieme alla compagna Moki e seguito da uno stuolo crescente di figli, tra cui molti d’arte, Don Cherry abbracciò la visione di un suono panafricano placata dall’esoterismo dell’Estremo Oriente: un suono che in anni recenti è tornato alla ribalta nel lavoro fiatistico di Kamasi Washington così come nelle produzioni elettroniche di Kieran Hebden aka Four Tet.

Le radici del suono di due tra gli artisti più quotati di questi anni stanno anche in questo album, che Don Cherry registrò negli States ma pubblicò in Italia nel 1975, due anni prima che nel resto del mondo: in Brown Rice il trombettista americano maneggia e impasta la musica indiana, il ritmo dei sobborghi neri, il gamelan indonesiano, il folk mediorientale, il Davis elettrico, il minimalismo nascente. Ne esce una musica istintiva e aperta, estatica e sincera, figlia della “infantile” visione di Don Cherry che poi sarebbe stata definita “world music”.

Per una rara eccezione di quel periodo nomade della sua vita – la maggior parte dei suoi album degli anni Settanta sono registrazioni live di concerti – Don Cherry riunì in studio alcuni dei musicisti e amici più fidati: Charlie Haden al basso, Billy Higgins alla batteria, Frank Lowe al sassofono, Ricky Cherry al piano per un album psichedelico, vibrante, ipnotico, screziato da voci e aggeggi elettronici: Brown Rice è istintivo, viscerale, personale, tanto casuale all’apparenza, quanto indicatore profondo della futura musica senza frontiere.

Eppure, negli USA non è mai stato pubblicato su cd e ci sono voluti 44 anni perché fosse ristampato su vinile: che poi a dirla tutta, l’attuale non è il vestito della copertina originale, all’epoca opera di Moki Cherry che disegnò, ricamò e fotografò una trapunta, così come fece per il capolavoro gemello che lo aveva preceduto – Relativity Suite, ancora avvolto nel bozzolo del jazz – tuttora mancante all’appello. Speriamo nella resurrezione del buon vinile da 180 grammi per la gioia di chi ha un buon giradischi – per tanti ma non per tutti – e nella democrazia dello streaming, per poterlo ascoltare di nuovo.

La copertina originale del disco, del 1975

La title track già declama la visione “world” del trombettista: due tastiere partono affiancate, una in chiave cinese l’altra gamelan, il basso wah wah di Haden interagisce con i bonghi elettrici e stabilizza il groove, sul quale entra e arde il focoso assolo bluesy di Lowe mentre Cherry tiene la barra ripetendo quietamente il tema di base, insieme sensuale e sinistro.

Malkauns si rifà a una delle forme più antiche del raga indiano: sostenuta dal respiro del tampoura di Moki Cherry, la composizione si espande lentamente per accogliere l’assolo contemplativo e struggente di Charlie Haden, fino a quando irrompono la tromba di Cherry e la batteria di Higgins in una spirale ascendente di grande urgenza espressiva.

Sull’altra facciata, ecco Chenrezig (divinità buddista della compassione), il brano forse più vicino al jazz ortodosso, anche se i puristi dissentiranno: un tema in crescendo “secondo copione” in cui si alternano la tromba incantatrice di Cherry e il sax urlante di Lowe, incalzati dal piano di Ricky Cherry prima liquido e suadente, poi sempre più assertivo e martellante.

Degi-Degi a chiusura del disco esplora ancora un’altra forma musicale, un luogo indefinito dove si incontrano la musica cosmica tedesca, l’afrobeat, la fusion e il funk: il quintetto fugge nell’iperspazio, pilotato dall’incessante basso elettrico di Haden e galvanizzato dagli squilli di tromba di Cherry.

Brown Rice comincia con un mantra e finisce con una space odissey, e ci dice che la spiritualità non scaturisce sempre da pace e serenità, ma anche da scompiglio e tumulto: l’altalena tra rumore e gioia, bellezza e caos è la vera world music.