CRITICA LIBRI

L’eutanasia e il sapore dell’amore

Eutanasia e suicidio assistito. Sono i temi al centro di un romanzo d’amore portato anche sul grande schermo, Io prima di te, al termine del quale il protagonista, divenuto quadriplegico dopo una radiosa e fortunata gioventù, decide di fare l’ultimo passo. Ci ragiona su una giovane studentessa di Pisa, per la quale la vita merita comunque di essere vissuta.

«Vivi bene, semplicemente vivi». Queste parole, che terminano il commovente romanzo Io prima di te (Me before you) di Jojo Moyess, da cui è tratta l’omonima pellicola del 2016, rappresentano le ultime volontà che Will, giovane quadriplegico rimasto vittima di un incidente, lascia in eredità alla ragazza dai gusti esotici ed eccentrici che, per gli ultimi sei mesi della sua vita, si è presa cura di lui amandolo allo strenuo delle sue forze.

Questo profondo trasporto l’uno nei confronti dell’altra ha permesso loro di crescere durante tutto il romanzo e di prepararsi ad affrontare il turbolento e doloroso futuro che li stava attendendo. Will, infatti, pur avendo scoperto che la vita ha ancora qualcosa di bello in serbo per lui, rimane fermo sulla propria posizione, decidendo di dirigersi in Svizzera per un’eutanasia.

Questo termine, che in greco significa letteralmente “buona morte”, è utilizzato nel gergo medico per definire l’atto di procurare intenzionalmente la morte ad un individuo, rispettandone le volontà.

Questa possibilità, che paesi come la Svizzera offrono alle persone malate, è certamente una delle questioni più controverse dibattute ai nostri giorni. Da anni ormai psicologi, medici e teologi discutono per capire se sia giusto o meno che una persona, seppur in uno stato di salute precario, debba avere la facoltà di porre fine a quel diritto, per alcuni considerato inalienabile, che è la vita.

Esistono tre possibilità di eutanasia: si parla di “eutanasia passiva” quando il medico si astiene dal praticare cure volte a tenere in vita il malato; di “eutanasia attiva” quando è il medico stesso a causarne direttamente la morte; e di “suicidio assistito” nel caso in cui è il paziente che pone fine alla propria vita in presenza di un medico o con mezzi da questo fornitigli.

In Italia questa pratica, in tutte le sue forme, è drasticamente vietata, ed è per questo che, mediamente, trenta italiani si dirigono ogni anno in Svizzera per non farne più ritorno.

Molteplici sono state le argomentazioni portate avanti sia contro che a favore dell’eutanasia. Dall’antica Grecia, dove il suicidio riscuoteva un’alta considerazione perché si supponeva che ognuno fosse libero di disporre come meglio credesse della propria esistenza, fino ad arrivare ai giorni nostri, in diversi hanno appoggiato e sostenuto questa pratica.

Tra questi Umberto Eco, il quale aveva pubblicamente affermato: «Nel caso incorra nell’incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le mie cure per evitare tensioni, disperazione, false speranza, traumi e spese insostenibili ai miei cari. Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri».

Chi, come lui, è a favore dell’eutanasia fonda le proprie convinzioni sul libero arbitrio, in quanto ogni persona è libera di vivere la sua esistenza come più gli è congeniale, senza che nessun altro possa interferire con le sue volontà.

Anche la qualità della vita è un’argomentazione fortemente condivisa in quanto si crede che chi è costretto ad una realtà che non gli è consona deve poter scegliere di porre fine alle proprie sofferenze.

Infine c’è chi, come Will in Io Prima di Te, fonda questa scelta sulla dignità e sull’estrema convinzione di non potersi più sentire umano essendo costretto solo a sopravvivere.

Chi osteggia l’eutanasia invita a tenere conto dei valori etici, morali e religiosi che vengono intaccati prendendo questa decisione, a cominciare, nel caso del medico, dal giuramento di Ippocrate a cui dovrebbe sottostare ed attenersi.

Quelli schierati su questo fronte sostengono che la vita, nonostante tutte le sofferenze che può comportare, sia un dono meraviglioso, il quale deve essere assaporato e goduto a pieno prima di buttarlo via. Citano Marco Aurelio: «L’uomo non vive altra vita che quella che vive in questo momento, né perde altra vita che quella che perde adesso».

È difficile giudicare un’azione tanto estrema: la maggior parte delle persone, probabilmente, non avrebbe il coraggio di compierla e forse non si troverà mai in una condizione tanto grave da doverla prendere in considerazione.

È chiaro che, dicendo addio a questa realtà, non si avrà mai la possibilità di tornare indietro. Personalmente, come si può evincere da questo articolo, non sono a favore dell’eutanasia, fatta eccezione per il caso citato da Umberto Eco, in quanto ritengo che dovremmo vivere la vita al massimo delle nostre possibilità cercando di trarre piacere dalle piccole cose che questa ha da offrirci.

Ma il libro di Jojo Moyess non dice questo. Il suo tragico epilogo si presenta, da un lato, come una sorta di odierno carpe diem che sprona a non accontentarsi e a vivere una vita che faccia sentire totalmente appagati, e dall’altro, come un invito a comprendere la propria condizione accettando che, non poter vivere come lo si vorrebbe, sia peggio di non vivere affatto.

 

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