CRITICA LIBRI

Dalle catene ci si può liberare

Bandito dai ragionamenti e dai dialoghi comuni, il “profitto” capitalistico, e quanto esso genera in termini di squilibri e storture, torna sulle ali di una storia in movimento permanente e di un processo sempre aperto dove il fatalismo non è così scontato come si vuol far credere. Con l’ausilio anche della geometria, La schiavitù del capitale di Luciano Canfora lo riporta al centro di una riflessione alla quale l’Occidente farebbe bene a non sottrarsi.

«Leggere i libri è sempre utile», si trova scritto tra parentesi al nono rigo di pagina 88 de La schiavitù del capitale da poco uscito per il Mulino; spesso, invece, è proprio raccomandabile, come nel caso di questo, scritto dal professor Luciano Canfora. In poco più di cento pagine, con un vasto orizzonte storico e geografico, vengono descritti fatti e antefatti alla radice del modello economico capitalistico imperante.

Attraverso un’analisi originale delle varie nozioni di “Occidente” succedutesi nei diversi momenti storici, giunge a considerare le cause e soprattutto gli effetti della guerra fredda da angolazioni e punti di vista multipli, così da facilitare l’emergere di sensi e aspetti altrimenti difficili da cogliere, e immergendo in questo modo, fin da subito, il lettore nel «movimento permanente della storia», nodo cruciale a cui l’autore tiene particolarmente.

Luciano Canfora

È proprio all’interno di tale flusso che vengono collocati i problemi fondamentali, le priorità assolute, con cui il mondo attuale è costretto a confrontarsi; la storia e il suo snodarsi, più che come racconto del semplice avvicendamento di cause ed effetti volto a spiegare didatticamente il presente, sono utilizzati come un canale nel quale, attraverso la narrazione dei fatti, veicolare concetti più complessi: il percorso della storia stessa, il suo essere un “processo sempre aperto”, la lezione che essa ci imprime, le responsabilità cogenti cui ci pone di fronte.

Ecco apparire allora il ritorno, in proporzioni sempre più massicce, a forme di dipendenza e sfruttamento di tipo schiavile non più circoscritto soltanto alle aree meno avanzate, «pilastro di primaria importanza del meccanismo del profitto capitalistico»; la regressione dei diritti del lavoro laddove erano stati conquistati con fatica nel secolo scorso; l’accentuata contrapposizione tra Nord e Sud del mondo estesa ormai a chiazze, praticamente ovunque, anche all’interno stesso delle ricche città del Nord del pianeta; le contraddizioni illogiche del profitto ad ogni costo, «anche quello di fare affari vendendo armi a chi le adopera per colpire all’impazzata nel cuore del mondo ricco»; e ancora, le scelte dissennate a danno dell’ambiente, il proliferare della malavita organizzata, lo sgretolamento delle utopie novecentesche, l’affermarsi dei fanatismi religiosi, la costruzione di muri, lo stringersi entro confini.

«Tutto torna dunque ogni volta al punto di partenza ed è inutile consolazione ripetersi a fior di labbra “Eppur si muove”?», si chiede Canfora, e la sua risposta è chiaramente no, respingendo nettamente la tentazione di lasciarsi prendere da un apparentemente pessimismo fatalistico. Tant’è che poi offre risposte chiare e inequivocabili a quell’errato senso di ineluttabilità: ripensare la centralità assoluta del ruolo assegnato al profitto, riequilibrare l’ingiusta divisione della ricchezza, ridare anima all’utopia della fratellanza. Qui è il cuore del libro, qui il punto su cui meditare.

Nel testo, esplicitamente riportati o solamente evocati, si notano diversi e interessanti richiami alla geometria: la linea del tempo sulla quale si snoda l’intero discorso; la piramide, modello su cui si traccia l’attuale stratificazione delle aree geografiche del nostro pianeta; la spirale, che con il suo movimento di rotazione esprime perfettamente il procedere della storia; le rette parallele destinate a fronteggiarsi senza incontrarsi mai con cui si possono visualizzare le due residue “utopie”, quella della fratellanza e quella dell’egoismo che, sole, si dividono la scena.

Aiuta a rimanere nella suggestiva metafora geometrica anche quanto sostiene la filosofa Adriana Cavarero quando parla di «due paradigmi posturali fra le varie geometrie della modernità» che afferiscono a due diversi modelli ontologici, quello individualista attualmente prevalente e quello relazionale; criticando la verticalità del modello ontologico dominante che pone l’asse principale del corpo al centro di direzioni assolute rispetto ad esso a conferma simbolica della sua potenza, indica nell’inclinazione la variabile posturale del modello relazionale: provata dalla storia l’anomalia, anzi l’abbaglio, dello schema basato sulla verticalità, del soggetto che si sorregge da solo, resistendo alla tentazione di frammentarlo, la filosofa propone di «provare a inclinarlo. Invece di spezzare in mille parti il suo asse verticale, si potrebbe dargli una diversa postura, appunto una piegatura. Magari inclinandolo sull’altro, come il modello relazionale non solo consente ma, da una prospettiva geometrica, incoraggia a fare» (A. Cavarero, Inclinazioni, critica della rettitudine, Raffaello Cortina Ed., 2013).

Il testo del professor Canfora si conclude con la trascrizione in appendice di due discorsi – l’appello radiofonico di Salvador Allende al popolo cileno dell’11 settembre 1973 dal palazzo della Moneda prima di morire e il discorso al popolo greco di Alexis Tsipras ad Atene del 27 giugno 2015 – il cui valore oltre che dal contenuto, la cui traccia profonda ha intriso la storia, viene anche dalla loro lettura in successione, dall’arco di tempo che racchiudono, e dalle riflessioni che da questo scaturiscono.

E sì, leggere i libri è sempre utile.

[Luciano Canfora, La schiavitù del capitale, il Mulino Ed., 2017]

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