Tra gli scritti raccolti in Collezione di sabbia c’è un articolo, apparso su “Repubblica” nel 1980, in cui Italo Calvino approfondisce – regalandoci la sua opinione – il tema del graffitismo. Lo spunto gli viene recensendo un saggio di Armando Petrucci, La scrittura fra ideologia e rappresentazione, un excursus circa la parola scritta sui muri, dalle epigrafi delle antiche città romane fino alle contemporanee «rotture della norma», passando per le più silenziose – sotto questo aspetto – città medievali, la teatralità della scrittura e dei suoi supporti nel barocco del Seicento e la perentorietà di regime nell’Italia degli anni Trenta.
Il testo offre a Calvino l’occasione per offrire ai lettori, in epilogo, le sue interessantissime considerazioni sui temi della comunicazione e, più in generale, del linguaggio. Sulla questione ancora aperta del graffitismo, a tutt’oggi in bilico tra arte e atto vandalico, val la pena rileggere le sue riflessioni: un’opportunità di sperimentare il confronto con forme espressive sfidanti almeno quanto creative e immaginarie, e un ottimo viatico per “leggere” e partecipare a eventi di Street Art come quello annuale nel comune di Cordenons in Friuli qui segnalato o a quelli che, videocamera del telefonino alla mano, TESSERE va in giro cercando.
Eccone uno stralcio:
Giunto fino a questo punto, l’obiezione che mi tenevo nel gozzo fin dal principio, ora che ho adempiuto al mio compito d’informazione riassumendo il contenuto del saggio in tutta la sua ricchezza e finezza, è tempo che la tiri fuori. Dalla prima pagina in cui evoca la città romana tutta ricoperta di scrittura tanto ufficiale che privata, alle ultime in cui si celebra la guerriglia sessantottesca dei graffiti, Petrucci insegue un ideale di «città scritta», di luogo saturo di messaggi articolati in segni alfabetici, che vive e comunica attraverso il depositarsi di parole esposte agli sguardi. Ora è proprio quest’ideale che io non condivido. La parola sui muri è una parola imposta dalla volontà di qualcuno, si situi egli in alto o in basso, imposta allo sguardo di tutti gli altri che non possono fare a meno di vederla o recepirla. La città è sempre trasmissione di messaggi, è sempre discorso, ma altro è se questo discorso devi interpretarlo tu, tradurlo tu in pensieri e in parole, altro se queste parole ti sono imposte senza vie di scampo. Sia essa epigrafe di celebrazione dell’autorità o insulto dissacratorio, si tratta sempre di parole che ti piombano addosso in un momento che tu non hai scelto: e questa è aggressione, è arbitrio, è violenza.
(Lo stesso vale per la scritta pubblicitaria, certamente; ma lì il messaggio è meno intimidatorio e condizionante, – ai «persuasori occulti» ho sempre creduto poco – ci trova più difesi, ed è comunque neutralizzato dai mille messaggi concorrenti ed equipollenti).
La parola scritta non è imposizione quando ti arriva attraverso un libro o un giornale perché per essere ricevuta presuppone un previo atto di disponibilità da parte tua, un consenso all’ascolto espresso nell’acquistare o soltanto nell’aprire quel libro o quel giornale. Ma se t’arriva da un muro senza possibilità d’evitarla è una sopraffazione in ogni caso.
È prevedibile che chi oggi sente il bisogno d’affermare le sue ragioni conculcate scrivendole sui muri con la bombola spray, il giorno in cui avrà il potere continuerà ad aver bisogno dei muri per giustificarlo, in epigrafi marmoree o bronzee o – secondo le usanze del momento – in smisurati striscioni propagandistici o altri strumenti dell’imbottimento dei crani.
Questo mio discorso non vale per le scritte di protesta sotto i regimi d’oppressione, perché lì è l’assenza della parola libera l’elemento dominante anche nell’aspetto visivo della città, e lo scrivente clandestino colma questo silenzio a tutto suo rischio, e anche il leggerlo è in qualche misura un rischio, e impone una scelta morale. E così pure farei delle eccezioni alla mia questione di principio per i casi in cui la scritta è spiritosa, come spesso ci è accaduto di leggerne in questi anni, a Parigi come da noi, o quando è tale da muovere una riflessione illuminante o una suggestione poetica, o rappresenta qualcosa di originale come forma grafica: perché il recepirne il valore, di pensiero o umoristico o poetico o estetico-visivo, implica un’operazione non passiva, una interpretazione o decrittazione, insomma una collaborazione del ricevente che se ne appropria attraverso un sia pur istantaneo lavoro mentale. Ma dove la scritta è una nuda affermazione o negazione che richiede dal leggente soltanto un atto di consenso o di rifiuto, l’impatto della coercizione a leggere è più forte delle potenzialità messe in moto dall’operazione con cui ogni volta riusciamo a ristabilire la nostra libertà interiore di fronte all’aggressione verbale. Tutto si perde nel frastuono del bombardamento neuro-ideologico a cui sono sottoposti i nostri cervelli da mattina a sera.
Né mi sentirei di prendere a modello le città dell’Impero romano, in cui tutti i messaggi epigrafici e architettonici ufficiali erano di imposizione dell’autorità imperiale e della religione statale. Se oggi l’epigrafia romana ci attrae è perché i suoi messaggi richiedono da parte nostra una decifrazione che è in qualche misura un dialogo, una partecipazione libera: la loro forza intimidatoria è estinta. Allo stesso modo, piena di fascino ci appare la funzione della scrittura araba nell’architettura e in tutto il mondo visuale dell’Islam: avvertiamo la presenza della parola scritta che avvolge gli ambienti in un’atmosfera di calma pensosa, ma ci salviamo dal potere d’ingiunzione della parola perché non la leggiamo, o se sappiamo leggerla perché essa ci appare lontana, sigillata nelle sue formule. (Lo stesso si dica per i calligrammi dell’Estremo Oriente). È la presenza della scrittura, le potenzialità del suo uso vario e continuo che la città deve trasmettere, non la prevaricazione delle sue manifestazioni effettuali: forse è questo il punto in cui la tesi di Petrucci e le mie argomentazioni si congiungono: la città ideale è quella su cui aleggia un pulviscolo di scrittura che non si sedimenta né si calcifica.
Ma i poveri muri delle città italiane non sono diventati anch’essi ormai che una stratificazione d’arabeschi e ideogrammi e geroglifici sovrapposti, tali da non trasmettere altro messaggio che l’insoddisfazione d’ogni parola e il rimpianto per le energie che si sprecano? Anche su di essi forse la scrittura ritrova il posto che è insostituibilmente suo, quando rinuncia a farsi strumento d’arroganza e di sopraffazione: un brusio cui occorre tendere l’orecchio con attenzione e pazienza fino a poter distinguere il suono raro e sommesso d’una parola che almeno per un momento è vera.
da La città scritta: epigrafi e graffiti, in Collezione di sabbia, Garzanti, 1984