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La dura vita del rider, il nuovo proletario della Gig economy

Photo by Sophia Kembowski

Ci sono parole che, forse a causa della liquidità della società e dei velocissimi cambiamenti a cui essa è sottoposta, sono, nostro malgrado, in inglese: una di queste è riders… In realtà una traduzione in italiano esiste, ma è meno evocativa: ciclofattorini. Li avrete sicuramente visti se vivete in una città medio-grande. Sono quei “pazzi” riconoscibili dai gilet colorati e fosforescenti, che, con le loro biciclette a cui è assicurato un contenitore termico, a volte issato sulle spalle, sfrecciano sulle strade per fare le consegne a domicilio. Di solito di cibo.

Questi lavoratori sono l’ennesimo esempio di sfruttamento di quelli che, anacronisticamente, andrebbero chiamati proletari. Ovvero persone di tutte le età, non solo ragazzini ma anche adulti con una famiglia da mantenere, che non hanno ancora trovato un lavoro o lo hanno perso, a causa – dicono le fonti ufficiali – della recente crisi o di un modello sociale balordo. Un lavoro su cui ripiegare, se non si può trovare altro.

Non si parla di dipendenti, ma di collaboratori, che, in quanto tali, non hanno garantito alcun diritto dall’azienda per cui prestano servizio: niente ferie pagate, niente giorni di malattia, assicurazione, sicurezza sul lavoro, contributi pensionistici all’INPS. È insomma un lavoro pressoché assimilabile a quello al nero.

La giornata tipo di un rider funziona così: si prende il turno, oppure si dà disponibilità e, nel caso venga accettata, si inizia a lavorare. La consegna viene attribuita tramite una notifica sul proprio cellulare, con l’indirizzo, ad esempio, del ristorante e quello del cliente. Si risponde accettando la consegna, ci si reca al ristorante, dove si aspetta che il mangiare sia pronto, si prende il pacco e si porta al cliente. Così, fino alla fine del turno. La maggior parte delle aziende ha un limite di 5 chilometri di distanza, in linea d’aria, dal punto in cui viene presa la merce da consegnare,  al cliente. Ma quel “in linea d’aria”, considerato che i muri non possono essere attraversati, i ponti non sono nel punto giusto, i sensi di marcia vanno rispettati, da 5 può allungarsi anche fino a 7/8 chilometri reali, da aggiungere a quelli per arrivare al punto di consegna, che non vengono conteggiati.

Immagine by Mauro Biani per “Il Manifesto”

Ci sono due metodi per prendere i turni: il ranking e il calendario. Il primo è basato su un punteggio, presumibilmente prodotto da un algoritmo il cui funzionamento è ignoto, che viene attribuito al rider in base ad “affidabilità” e “buona condotta”. Il ciclofattorino viene quindi inserito in prima, seconda o terza fascia, a seconda degli orari di uscita: prima fascia per la mattina, seconda per il pomeriggio e terza per la sera. In seconda e terza fascia i riders vedono i turni col binocolo, sforano gli orari, nulla è certo. L’altro metodo, il calendario, prevede che, verso metà settimana, escano i turni cui ogni ciclofattorino può dare o meno la propria disponibilità per i giorni successivi. È il manager, poi, ad approvare o meno i turni stessi. Insomma, totale discrezionalità dell’azienda e pressoché zero possibilità di scelta per i collaboratori. Ciononostante, tante persone accettano le condizioni di lavoro e si avviano a fare questo mestiere.

Ma come si fa a diventare un rider? Le numerose aziende (per lo più multinazionali) che offrono questo lavoro hanno – ovviamente – un sito internet con una sezione del tipo “lavora con noi”, cui inviare la propria candidatura, insieme ai dati richiesti (età, esperienza, permesso di lavoro in Italia, patente, ecc. a seconda delle necessità dell’azienda stessa). Se la domanda viene presa in considerazione, l’aspirante rider viene convocato per un colloquio (reale o virtuale), superato con successo il quale, deve andare nella sede aziendale più vicina per una breve formazione e per ritirare gli strumenti di lavoro. Se non c’è una sede fisica, la formazione è online e l’attrezzatura viene spedita successivamente. In questo secondo caso, il ciclofattorino non avrà mai un contatto “reale” con un referente dell’azienda per cui lavora.

L’assenza del rapporto umano con il datore, la totale “solitudine” professionale del riders che si muove da solo a fare le consegne, producono alienazione da una parte, generano scarsa socialità dall’altra e con essa anche la possibilità di associazione fra colleghi. A volte le cose vanno diversamente, i riders fiorentini, ad esempio hanno creato una propria pagina Facebook, sulla quale condividono le proprie esperienze di lavoro, fanno conoscere le problematiche, le eventuali rivendicazioni, cercano contatti e confronti esterni al circuito lavorativo.

I requisiti per affrontare questo lavoro snervante, mal pagato e poco sicuro, ma pur sempre un lavoro,  sono avere più di 16 anni, un telefono recente e aggiornato (con un Nokia 3310, per fare un esempio, non si può lavorare), versare (non tutte le aziende lo prevedono) una caparra per le attrezzature, avere il permesso di soggiorno se non si è di nazionalità italiana, e possedere o, comunque, dichiarare di possedere una bici adatta al lavoro che si deve fare.
Se non è proletariato questo…