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La lezione del partigiano Nello

Partecipazione, condivisione e libertà. La lezione di democrazia di Nello Bracalari, staffetta partigiana, che dopo la fine della Seconda guerra mondiale ha dedicato la propria vita alla politica e all'impegno civile
Foto: Il Giunco.net

«Bisogna agire. Indignarsi, ma anche organizzarsi, perché l’indignazione da sola non basta a cambiare le cose. E non bisogna essere esclusivi. Fare la politica dei “pochi ma buoni” e isolarsi è perdente. I “più buoni” devono saper coinvolgere i “meno buoni” perché più siamo, meglio è».

Così il partigiano Nello parla ai giovani – e non solo – di politica e partecipazione, perché, come dice «viviamo un momento di generale discredito della politica e tutto fa pensare che recuperare un rapporto di fiducia con i cittadini non sarà semplice».

Ma lui ci prova ancora, con i suoi 91 anni ben portati, un figlio, due nipoti, la forza e la modernità delle proprie idee, cui mai è venuto meno durante una lunga vita di militante, di sindacalista, di amministratore pubblico, di presidente della sezione grossetana dell’Associazione nazionali partigiani (Anpi), di uomo del popolo e per il popolo. Dalla casa di Grosseto, armato di computer, smartphone e social, informato al minuto sulle cose del mondo, circondato di libri e di tecnologia, non manca di far sentire forte e chiara la propria voce, nei momenti che contano, in cui c’è da sostenere scelte politiche in direzione della libertà e della democrazia. E non perde l’occasione di essere presente in piazza e in mezzo alla gente. In carrozzella, stanco per il peso degli anni, ma vivace e sorridente come un ragazzino, è andato a corteo del 25 aprile nella sua città e c’è da stare certi che non mancherà alla festa della Repubblica.

Nello Bracalari è nato il 23 aprile del 1928, a Gavorrano, un piccolo comune in provincia di Grosseto, in una famiglia contadina poverissima. A 15 anni era una staffetta partigiana e dopo la fine della Seconda guerra mondiale ha dedicato la propria vita alla politica e all’impegno civile.

«Sono il quinto figlio di una famiglia contadina. Eravamo poverissimi – racconta – come tutti i mezzadri che traslocavano incessantemente da un podere all’altro alla ricerca di uno che fosse sufficientemente redditizio. All’età di 10 anni, dopo aver frequentato la quarta elementare, ho dovuto abbandonare la scuola con mio grande dispiacere e con il disappunto della mia insegnante, che provò a intervenire senza successo sui miei genitori. Ma d’altra parte c’era da lavorare, mio fratello maggiore, che era nato nel 1920, era stato chiamato militare e c’era bisogno di qualcuno che badasse alle pecore e lavorasse con l’aratro. Mio padre, peraltro, aveva trovato lavoro nella manutenzione delle ferrovie, ma quando rifiutò di iscriversi al partito fascista, lo licenziarono e dovette tornare a fare il contadino. Eravamo una famiglia di antifascisti, ma devo dire che vivere in campagna e lavorare ci ha salvato dalle rappresaglie e dagli obblighi di partito. Il proprietario del podere in cui vivevamo era un “capetto” fascista del paese e aveva più interesse a che mio padre lavorasse, anziché fargli perdere tempo nelle adunate. Per quanto riguarda me, eravamo così poveri che non ci potevamo permettere la divisa da balilla. Così i miei non mi mandavano alle adunate, ma nessuno se ne lamentava e mi obbligava a farlo. Poi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, mio fratello, che aveva partecipato alla campagna di Grecia, decise di non obbedire alla chiamata alle armi della repubblica di Salò e si dette alla macchia assieme ad altri giovani. Io, che all’epoca avevo 15 anni, con altri coetanei, provvedevo ai rifornimenti di viveri ed ogni altra necessità. La mia partecipazione alla Resistenza sostanzialmente fu quella di semplice “staffetta”».

Una “semplice” staffetta come ce ne son state tante che definire “semplici” è riduttivo, perché il loro ruolo è stato fondamentale per mantenere il collegamento tra i partigiani e le popolazioni, per mettere i diversi gruppi in comunicazione, oltre che per portare loro da mangiare e quanto di altro serviva per vivere e di beni di prima necessità. Molti di loro hanno pagato con la vita.

«Qui da noi, la Resistenza iniziò nel 1943 e durò fino al 1944. Non avevamo armi, gli Alleati le fornirono solo nella primavera del ’44. C’erano i fucili da caccia, ma certo non erano adatti alla “guerra” e comunque da noi la situazione di conflitto civile era relativamente tranquilla. In campagna e nei paesi intorno (Giuncarico, Gavorrano, Caldana, ndr) le famiglie erano quasi tutte antifasciste e ci proteggevamo a vicenda. Non esisteva la distinzione in partiti, eravamo antifascisti e questo bastava, anche nelle organizzazioni partigiane».

Poi arrivò il giugno del ’44.

«Avevamo tutti paura di rimanere tra i due fuochi, dei tedeschi in ritirata e degli alleati in avanzata, come succedeva in molte parti del Paese, anche se le notizie arrivavano poche o per niente. Mi ricordo che una mattina, tra il 16 e il 18 giugno del ’43 mi sentii chiamare e corsi a vedere cosa stava succedendo. C’era una lunga colonna di uomini – racconta Nello – in fila indiana, che ogni tanto si fermavano, ci davano la cioccolata e le sigarette. Si festeggiava ovunque. Per noi quella fu la nostra liberazione. Nelle settimane successive, con altri ragazzi, andavamo ad aiutare al campo alleato. Ci facevano fare lavori di pulizia, portavamo le armi e le bombe dalla stazione all’aeroporto. Ho un ricordo particolare degli inglesi. Andavano in giro con la tazza del tè attaccata alla cintura. Per loro era un momento irrinunciabile della giornata. Alla fine ci hanno abituato a quella bevanda, che io però non amavo e che anche dopo non ho mai più bevuto volentieri».

Dopo la liberazione Nello Bracalari, che nel frattempo era stato assunto come operaio in una cava, «una buca profonda alcune decina di metri – racconta – gelida d’inverno e torrida d’estate, un vero e proprio girone dantesco», iniziò la “gavetta” dell’attività politica, nelle file del Movimento giovanile comunista e, successivamente, nel PCI. «Di tale attività ricordo in particolare i primi anni, quando si tenevano accese discussioni sui lavori della Costituente: i principi fondativi enunciati all’articolo 1, il rapporto con la Chiesa cattolica e il recepimento dei patti Lateranensi, la libertà di iniziativa economica sancita dall’articolo 41. Erano anni entusiasmanti e di intensa partecipazione democratica, che non degenerò neppure dopo la batosta elettorale del 18 aprile 1948 e l’attentato al segretario generale Palmiro Togliatti».

Una vita di politico e di amministratore pubblico, nelle file del PCI, poi PDS e DS, costellato di momenti esaltanti e fasi di maggior difficoltà.

Poi, nel 2006 la proposta di sostituire il senatore Torquato Fusi, scomparso poco prima, alla presidenza dell’Anpi di Grosseto e l’avvio di un nuovo impegno, sostenuto con entusiasmo e sempre dando il massimo all’associazione per farla crescere e mantenerne alto il prestigio. Fino al 2016, quando è stato nominato presidente onorario.

«Nel corso della mia lunga attività politica ho rivestito ruoli e ottenuto un consenso che mi avrebbero forse consentito l’accesso a incarichi più prestigiosi, a livello regionale o nazionale, ma non ho mai “sgomitato” per fare carriera. Ritenevo, e non ho cambiato idea, che le ambizioni personali di un politico debbano assoggettarsi ad altre priorità. Così ora, dopo decenni di attività, vivo senza rimpianti con una pensione che appena supera i mille euro mensili, orgoglioso di quello che ho cercato di fare per il “bene comune”e in favore dei più deboli. Mi sento appagato dalla stima e dall’affetto da cui sono circondato».

Una lezione, appunto. Per molti.