ATTUALITÀ IL PERSONAGGIO STORIE

Aretha, la regina del soul tra musica e ribellione

Abbiamo ballato sulle note di Respect e di Think, ci siamo commossi su You make me feel (Like a Natural woman), abbiamo fischiettato Say a little prayer, ci siamo innamorati con I Never Loved a Man.

Aretha Franklin è stata la regina indiscussa del soul, ma anche l’artista che ha cantato Nessun dorma al posto di Pavarotti (che aveva dato forfait 20 minuti prima) nel 1998, alla cerimonia dei Grammy a Los Angeles, una delle più grandi interpreti musicali femminili del ‘900, che è entrata nelle orecchie, nel cuore e nella vita di intere generazioni, in tutto il mondo.

Ha venduto milioni di dischi, ha vinto 21 Grammy (18 consecutivi dal 1968 al 1975), è stata la prima donna a entrare a far parte della Rock and Roll Hall of Fame, al primo posto nella classifica dei più grandi cantanti di tutti i tempi secondo la rivista “Rolling Stone”. Con la sua voce potente, prepotente e incomparabile, ha attraversato e segnato con leggerezza due secoli, che senza la sua musica sarebbero stati più tristi.

The “Singer”, come l’aveva chiamata, nel 1968, il “Time”, dedicandole la copertina di giungo, se ne è andata il 16 agosto 2018, a 76 anni, lasciando un vuoto che sarà riempito con le sue straordinarie canzoni. Ma anche con l’esempio della sua vita sempre sopra le righe, in lotta per i diritti delle donne, dei neri, delle “categorie” sociali più deboli e oppresse, in quell’America del secondo Dopoguerra che si era scoperta più colorata, più ribelle e per certi aspetti più fragile. E avrebbe continuato anche negli anni a venire ad dare voce, anche attraverso la musica, a chi lottava per le iniquità sociali.

Limitarsi a ricordare l’artista, quindi, non rende giustizia a questa donna straordinaria: in molti non hanno esitato a definirla la voce femminile più bella, ancora più della grazia vocale di Billie Holiday, di cui TESSERE ha raccontato la vita, i successi e i dolori. Un doppio filo, tuttavia, lega queste due donne: l’arte e il coraggio di combattere i pregiudizi. Tutta la vita di Aretha è stata al servizio della musica e delle cause civili: la sua ultima esibizione, solo per fare un esempio, si è tenuta a novembre 2017 a New York, in occasione del gala della Elton John AIDS Foundation. Nel 2009 era tra gli artisti che hanno celebrato l’elezione di Obama, mentre, come era da aspettarsi, ha rifiutato l’invito di Donald Trump a cantare per il suo insediamento.

Una ribelle, una rivoluzionaria, capace di trasformare una canzone di Otis Redding, Respect, nata per tutt’altri motivi, nell’inno dell’emancipazione femminile e del movimento per i diritti civili. Era il 1967, Aretha aveva 25 anni e già da sette, aveva un contratto con la casa discografica Columbia.

Del resto era figlia d’arte. La madre era una pianista e cantante, il padre, il reverendo Franklin, era un celebre predicatore che riempiva la casa di musicisti. Ma non personaggi qualunque, poiché si trattava di Duke Ellington, Nat King Cole, Mahalia Jackson, Della Reese. E proprio nella New Bethel Baptist Church di Detroit, Aretha aveva cominciato a cantare il Gospel.

Era nata il 25 marzo 1942 a Memphis, in Tennessee. Un’infanzia difficile, segnata dall’abbandono della madre e dal rapporto burrascoso con il padre, alcolista e violento. Seguendolo in giro per gli Stati Uniti, suonando il piano e cantando quando era poco più che una ragazzina, divenne ben presto nota per quella voce dall’estensione, l’intonazione e il timbro unici. A 15 anni aveva già due figli ed era determinata a diventare una cantante, mentre le difficoltà che incontrava ogni giorno come donna e afroamericana plasmavano la sua coscienza civile. Anche in questo caso il terreno era fertile, perché il padre era amico di Martin Luther King e la sua casa era frequentata da leader del movimento per l’emancipazione degli afroamericani come James Cleveland e Clara Ward. Fu Aretha a cantare al funerale di Luther King, onorandone la scomparsa con una struggente interpretazione di Precious Lord.

A dispetto della sua stazza, della sua possente cassa toracica e della forza con cui affrontava le difficoltà della vita, Aretha, era una donna sofferente e fragile, che portava dentro i segni di un’infanzia difficile, del padre manesco e del primo marito violento. Soffriva di frequenti esaurimenti nervosi e cercava conforto nell’alcol e nelle sigarette, che fumava una dietro l’altra senza che, miracolosamente, ne intaccassero la voce. Eppure non si arrendeva mai: non lo aveva fatto negli ani Settanta, quando la disco music aveva preso il sopravvento su ogni altra forma musicale; non lo aveva fatto negli anni Ottanta, quando ritrovò il successo con il film cult The Blues Brothers, che la riportò ai vertici delle classifiche, né negli anni Novanta quando è riuscita a stare al passo con i tempi e le nuove mode.

La musica era sua fuga, anche dopo la diagnosi di cancro del 2010, il suo conforto, la lingua universale con cui raccontava la vita attraverso stili lontani e diversi, dal soul al blues, al gospel, al pop, il rock e jazz, interpretati secondo la sua inconfondibile maniera, persino quando si cimentava nelle canzoni di altri artisti, che reinterpretava con la sua vocalità unica, la sua personalità e la sua passione. La musica nera, quella che mai nessun cantante bianco è riuscito a cantare con uguale intensità, era uscita, grazie a lei, dal “ghetto” per diventare americana e conquistare subito dopo il mondo intero.

Aretha Franklin, negli anni 60 è stata un simbolo, scrive Ernesto Assante, in un articolo su “La Repubblica”, «per le donne, perché rappresentava un’idea femminile libera e indipendente, per i neri, nel bel mezzo dell’esplosione del “black power“, perché era in grado di affermare la libertà del suo popolo in ogni nota che cantava, per gli artisti, perché era in grado di vivere il suo tempo, con perfetta sintonia con quanto accadeva nel rock e nel pop, senza dimenticare le radici».

E per tutto il tempo che ha cantato, come Sinatra, Aretha Franklin è stata “The Voice”, la voce, «non una voce qualsiasi, ma la voce che ha saputo cantare i nostri dolori, le nostre gioie, i nostri amori, le nostre difficoltà, come noi avremmo voluto cantarle. Una voce che ha cantato la nostra anima».